L’ozio di Seneca contro la corruzione dello Stato

Come deve comportarsi il filosofo se lo Stato è ormai irrimediabilmente corrotto e la politica un campo di conflitti pericoloso e violento? Si tratta di una domanda drammatica in un quel contesto storico e culturale dell’impero romano che vedeva il filosofo, come ogni cittadino, prendere parte attiva alla vita pubblica. Per Seneca, dopo un primo accomodamento con la dottrina stoica, non ci sono dubbi: prima che il filosofo si spenda in sforzi che non giungeranno ad alcun esito, prima di impegnarsi in un aiuto che sarà sistematicamente violato o rifiutato, è possibile ed anzi necessario affidarsi interamente agli studi e vivere una vita ritirata. Perché la vera vocazione del filosofo non è la politica ma l’educazione.

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Etica e Fortuna

Il tentativo di fondare una morale della virtù pura, una teoria morale che ponesse alla sua base anche una intersoggettività positiva, che – con statuto ontologico a sé – avesse una legittimità ed una applicabilità davanti ad ogni evento è risultato inconcludente. Troppo forte lo sconquasso che gli eventi generano nelle vite umane, troppo imprevedibile il corso delle cause esterne, incontrollabili e non dipendenti da noi.
La lettura della prima sentenza del Manuale di Epitteto, quando il filosofo stoico – in modo chiaro come nessun’altro prima, forse – afferma: Le cose sono di due maniere; alcune in potere nostro altre no [1] è l’emblema del fallimento di un’etica della virtù pura. Epitteto, ma prima di lui tutto lo stoicismo ed il grande Aristotele, ci mette davanti ad una verità evidente nell’esperire umano: il semplice fatto che alcune cose (l’opinione, il movimento dell’animo, l’avversione…) sono in nostro potere, ma altre (il corpo, gli averi, la reputazione e quello che non sono nostri atti) no. In altre parole: gli atti e le cose che sono in potere nostro dipendono da noi, dalle nostre scelte, dal nostro sentire; le cose che non sono in nostro possesso sono sottoposte alla giurisdizione della Fortuna.

L’esposizione dell’uomo alla serie delle cause esterne, o Fortuna, e la sua precarietà nel fluttuante scorrere inesorabile dell’esistenza, sono stati eletti come motivi principali per affermare un’intersoggettività positiva di fondo e quindi la reale possibilità di un’etica della virtù. Ovvero: si è creduto che la precarietà umana potesse permettere all’uomo di provare un sentire positivo nei confronti dell’altro, un sentire solidale e che la socialità potesse emergere come tratto distintivo e naturale fra gli uomini.

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RF8: i temi affrontati

VIII Ritiro Filosofico

Nocera Umbra, loc. Salmata, 8 – 9 dicembre 2012
Centro Soggiorno Salmata
Via Fano 40 – Nocera Umbra

Tema
La dottrina morale in Seneca e l’ influenza della Stoa sul pensiero di Baruch Spinoza
a cura di Saverio Mariani e Andrea Cimarelli

Prima giornata
Arrivo sabato 8 dicembre alle 14,30: presentazione dei partecipanti.
ore 15:00, prima sessione: la dottrina morale di Seneca e i padri fondatori della Stoa.
ore 17:00: pausa.
ore 18:00, seconda sessione: le tesi senecane e stoiche rispetto alla dottrina di Spinoza.
ore 20:00: cena.
ore 21:30, sessione serale: dibattito.

Seconda giornata
ore   8:00: colazione.
ore   9:30, prima sessione: lettura e commento di alcuni passi delle Lettere a Lucilio.
ore 11:00: dibattito.
ore 13:00: pranzo.
Partenza nel pomeriggio di domenica 9 dicembre.

Testi suggeriti per la preparazione del ritiro:
– Seneca, Lettere a Lucilio (possibilmente edizione con testo a fronte);
– Max Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, Bompiani, 2005.

Come arrivare.
In treno: linea ferroviaria Roma-Ancona, stazione di Nocera Umbra. Comunicando l’ora di arrivo può essere organizzato il trasferimento in auto.
In auto: Da Roma, percorrere la SS3 Flaminia. Superata Nocera Umbra, seguire le indicazioni per Salmata.

Informazioni e prenotazioni: ritirifilosofici@gmail.com

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Ex Post

 

Ecco, in forma necessariamente riassuntiva ed asistematica, alcuni dei temi affrontati durante RF8.

8 dicembre 2012.

Saverio Mariani.
Agire moralmente, alla fine della riflessione di Seneca è vivere secondo natura. Per affermare ciò c’è bisogno di percorrere un sentiero lungo, sul quale la filosofia dovrà porre luce. Razionalità della ragione universale, che è l’ impetus interno della realtà. È ciò che svolgendosi dà forma alla realtà. Seneca è alternativo al movimento stoico perché guarda all’azione come al vertice della filosofia, e non pone la condizione del saggio unicamente in isolamento. In questo è figlio della cultura romana. Come inserisce Seneca l’azione nel suo pensiero? Secondo Seneca la natura conforma l’uomo: gli impone di contemplarla (quindi di conoscere) e gli impone di agire (De Otio). Il saggio stoico (secondo Seneca, cioè inteso con la declinazione romana fondata sull’azione) si relaziona con la necessità rinnovando un continuo sì al fato e si pone in prima persona all’interno del destino: si integra nel movimento razionale della natura e dunque ne è compartecipe (epistola 77).
La saggezza è la meta, la filosofia è la via (ep. 89).
La comprensione dell’ immutabilità e della non alterabilità delle cause esterne è fondamentale e permette al saggio di tollerare l’esistenza. L’accettazione della non modificabilità delle condizioni esterne da parte delle azioni dell’uomo. La dottrina di Seneca predica l’agire secondo virtù per il perseguimento della felicità; ha vinto però la dottrina (cristianesimo)  che predica l’agire secondo virtù per il semplice fatto di predicare la virtù.
Gli stoici trasformano quello che è pratico in movimento teoretico. Millantano la loro pretesa etica per altro. Fanno di meno rispetto ai cinici per ciò che concerne l’attività pratica. Introducono una discrepanza fra l’agire pratico e la dottrina.

Andrea Cimarelli.
Nietzsche ha una visione della filosofia come strumento non contemplativo ma operativo molto simile a quella di Seneca: “Io vi scongiuro, fratelli miei, restate fedeli alla terra e non prestate fede a coloro che vi parlano di speranze ultraterrene! Sono avvelenatori, lo sappiano o no” (Così parlò Zarathustra).
Il coraggio dell’oltre-uomo è quello dell’accettazione. L’esistenza della libertà umana è la prova dell’uccisione di dio. Se l’uomo è libero, dio è morto, perché altrimenti la libertà umana ne risulterebbe limitata.
Affinità tra l’impetus stoico con la volontà di potenza di Nietzsche.
Nietzsche è l’ultimo avamposto della religione. La religione è una dottrina rivolta agli uomini per convertirsi. Così Nietzsche propone Zarathustra, che è un profeta, non un filosofo. L’approccio di Nietzsche non è quindi filosofico, come ricerca individuale della verità, che non è mai rivelazione, annuncio.

9 dicembre 2012.

Saverio Mariani.
La filosofia deve portare a uno stato di consapevolezza che consenta di eliminare le terminazioni passionali che conducono alla sofferenza. Per comprendere questo si deve analizzare che cosa si intende per passione, per scelta libera, per volontà: dunque si deve analizzare il rapporto tra appetito (desiderio) e scelta razionale.
Filologicamente: in latino per esprimere il concetto di desiderio troviamo sempre una duplicità di lemmi: passio/desiderium. Si tratta di una spinta che non consente il controllo di se stesso. La distinzione di Seneca è netta fra desiderio naturale e desiderio artificiale. I desideri naturali sono finiti e possono trovare appagamento e soddisfazione, quelli artificiali sono infiniti e sempre inappagati (v. Ep. 16).
Antropologicamente il desiderio è preceduto dal conatus, che è un impulso che non ha oggetto di destinazione. Il tentativo di dare soddisfazione al desiderio non naturale, necessariamente impossibile, data l’infinita estensione del desiderio non naturale, produce il dolore e il male (ep. 121).
Dove si inserisce la razionalità? La razionalità sta nel:

  • comprendere che siamo spinti dal desiderio;
  • capire che il desiderio è solo auto conservazione;
  • comprendere che il desiderio si costruisce di due parti (artificiale e naturale);
  • eliminare il tentativo di appagamento dei desideri naturali.

Seneca afferma che questo percorso non è per anime deboli, giacché serve fortitudo (coraggio). Il presupposto razionale determina l’eticità dell’azione (intellettualismo etico). Il male è frutto di in giudizio sbagliato: con la ragione puoi curare, anzi estirpare l’errore e dunque il male (ep. 37: se devi assoggettarti a qualcosa, assoggettati alla ragione). Siamo noi che, cercando di andare oltre le nostre possibilità, ci auto-infliggiamo il dolore.
L’essere un ente desiderante condanna l’uomo ad una condizione di instabilità. La passione è un giudizio errato; la ragione è un giudizio retto. Questo è il limite degli antichi. La spiegazione del retto agire è costretta ad escludere la passione, gli affetti, che però sono una parte ineludibile dell’essere umano. Per Seneca la bona voluntas è poi lo strumento che consente di inscrivere nella prassi il retto agire: la bona voluntas è l’ultima terminazione della ratio (cioè del retto agire). In realtà però la bona voluntas è un modo per giustificare l’accettazione della necessità (ep. 54).

Secondo Spinoza, la ratio produce un affetto buono (amor dei intellectualis), con il quale si può combattere e vincere l’affetto cattivo. Secondo Spinoza il percorso per l’estirpazione del male non è la ratio (ragione) ma la creazione di un affetto/passione (l’ amor dei intellectualis) che può combattere e sconfiggere l’affetto negativo (il male). Insomma, in Spinoza il male è un connotato ontologico dell’uomo: in questo va ritrovata la differenza fondamentale e il limite della filosofia degli antichi.
Mappa concettuale che rappresenta l’agire umano secondo Aristotele. In questo quadro il desiderio, come inteso da Seneca, si inserisce nell’alveo dell’agire volontario.

VIII Ritiro Filosofico (RF8)

Si è appena concluso l’ VIII Ritiro Filosofico, quest’anno incentrato su Seneca e la dottrina della Stoa. Di seguito, lo Storify, foto, eccetera. Al più presto, relazione ed info sulle prossime novità di RF.

Qui lo Storify. Retweet, please.

E, per finire, un breve album fotografico (foto di Saverio Mariani & Mauro Longo).

 

Se Dio è morto tutto è possibile?

La frase che fa dà titolo a questo articolo è una riproposizione della famosa affermazione di Dostoevskij, solamente che in questo caso è stato messo un punto interrogativo alla fine della frase stessa. Perché ne I fratelli Karamazov lo scrittore russo poneva l’affermazione come una determinazione di ciò che sarebbe accaduto, una volta che Dio fosse morto. Intendiamo, ovviamente, la morte di Dio come la fine di tutte le certezze metafisiche che potevano dare una spiegazione, ed una motivazione aprioristica, all’azione morale.

Personalmente non posso dire di vedere una disfatta delle vecchie morali che determinavano, e determinano, l’agire umano. Per lo meno in Occidente. Non posso, però, nascondere che la modificazione del mondo e le novità hanno permesso a nuovi standard, modelli e fondamenti morali (alcuni li chiamano valori) di diventare padroni delle coscienze, e punti di riferimento per l’agire di molte persone. Ad esempio – anzi, l’esempio principale – è quello della religione cristiana. È innegabile che molte nuove generazioni abbiano abbandonato quella struttura di credenze e fondamenti morali (o valori), per volgere lo sguardo e l’azione verso punti di riferimento diversi.

Spesso questo volgere lo sguardo verso nuovi punti di riferimento morali, per molti, significa (erroneamente) non avere punti di riferimento morali (o valori). Cioè, come a dire, che: siccome non si fa più riferimento ad una dottrina morale ed etica (che è ben diverso!) ben definita e tradizionale, non si possa agire rettamente. E quindi, tornando alla frase di Dostoevskij, siccome non c’è più Dio che impone la sua forza etica sulla nostra coscienza, abbiamo la possibilità di fare qualsiasi cosa. La stessa cosa avveniva, ad esempio, con Epicuro, quando diceva ai suoi allievi che dovevano agire come se Epicuro li stesse guardando, e ciò era garanzia di un’azione morale.

Ho paura di non essere d’accordo con questa prospettiva. Ebbene: lo smascheramento di una scala di valori che la porta, necessariamente, ad essere abbandonata da molte persone non è sintomo di decadenza. (Non sto parlando nei termini in cui Khun fa muovere le teorie scientifiche nel tempo storico, qui si è in una dimensione altra.) La decadenza non coincide con il non credere più ad una serie di riferimenti morali. La decadenza, semmai, sta nella non accettazione di un relativismo di base. Credere che le proprie idee siano la verità immutabile, non porle mai sotto giudizio, ma difenderle passando da irrazionali è ciò che genera un muto asservimento.

E non è vero che dopo la fine della metafisica (se mi è permesso dire) occidentale come grande dimostrazione teoretica di Dio, si può solo cadere nell’immoralità del tutto è permesso. La Filosofia (quando non è stata pura metafisica, come in grandi tratti della modernità) ci ha insegnato che il soggetto può essere autonomo, può migliorare, può avvicinarsi alla felicità anche – e forse soltanto – mediante la verità e la ricerca.

Per ciò, concludendo, vorrei dire che l’insegnamento dei greci e dei romani (soprattutto stoici) ci può far capire come anche senza un Dio di cui abbiamo paura, possiamo agire moralmente. Anzi, è proprio forse senza un riferimento trascendente che impone nella pratica ciò che dobbiamo fare, e ciò che non dobbiamo fare, che possiamo agire moralmente. Cioè fare il bene per il bene comune, e non fare il bene per sentirsi bene con se stessi.

Pasano, 4-5 luglio 2009.

4 luglio 2009

L’approccio domenicano alla filosofia pensa ad una filosofia per la quale la ragione può comprendere in modo incontrovertibile: dopo la parte razionale c’è la fede che riempie quanto la ragione non riesce a conoscere. Il domenicano pensa che può conoscere il mondo con la sua ragione.
L’approccio francescano (quello oggi dominante, che ha un approccio “istantaneo”, “esperienziale” alla fede), pensa che la ragione abbia bisogno della fede: non c’è ragione prima della fede. Se la ragione non si associa subito alla fede si risolve in una esperienza tecnica, non umana. L’approccio francescano è fondamentalmente irrazionale: credo quia absurdum.
L’approccio francescano è quello attualmente dominante.
La posizione di S è invece quella domenicana, la ragione può affrontare la realtà, che è una e non molte.
La filosofia moderna tende ad una visione francescana: la verità, ove pure univocamente esistente, può essere avvicinata approssimativamente, ma non può mai essere raggiunta.
S. ha fatto il suo percorso scolastico con gente che vedeva la filosofia in termini invece domenicani. Studia con Bontarini, che era un neo-scolastico. Questi ha sempre cercato di non far influire la sua fede religiosa sulla sua ricerca filosofica. S invece riempie consapevolmente la sua ricerca filosofica con la fede religiosa. Specialmente nelle sue prime opere, la filosofia di S. è imbevuta di religiosità.
Se la filosofia conosce il bene dell’uomo, la filosofia si deve occupare anche della politica.
Se la felicità dell’uomo è Dio, la società deve permettere la contemplazione (?) sempre maggiore di Dio, e dunque il filosofo si deve preoccupare dell’organizzazione della società.
Il S. della prima fase è cristiano, contigentista (l’uomo deve rispettare il progetto di Dio) ha fede nel divenire.
Il S. della seconda fase (post 1952 ed espressamente dal 1958 “La struttura originaria”) è ateo, Dio non interviene nel mondo, tutto è necessario, non esiste libertà, non esiste scelta, non si può orientare l’azione in un modo invece che in un altro (e in questo riprende lo stoicismo più radicale).
Il principio di non contraddizione aristotelico afferma che una cosa non può essere sé e il contrario di sé allo stesso tempo e nel medesimo rispetto. Così è anche S. del primo periodo.
Nel secondo periodo S. radicalizza tale principio, affermando che di qualcosa esistente non si può predicare la non esistenza, perché si incorrerebbe in contraddizione. Dunque ciò di cui si predica l’esistenza non può divenire nulla. Il nulla non esiste. Ciò che esiste non finisce nel nulla, al massimo scompare, esce dalla nostra vista, ma non entra in uno stato di non-esistenza.
Ciò che è, è per sempre. L’essere in quanto tale è immutabile.
In questo senso, il nesso di causalità non esiste. Si possono vedere l’interazione fra corpi, ma non il nesso di causalità. E questo è lo stesso discorso di Hume. La connessione causale non è sperimentabile e ciò fa cadere il determinismo. Affermare la sussistenza del nesso di causalità è fare metafisica.
I punti fermi veritativi:
  • principio di non contraddizione parmenideo (logico): ogni cosa è sé, non può essere altro, quindi ogni cosa è eterna;
  • il nesso di causalità non esiste.
Il divenire è la vicenda dell’apparire e dello scomparire dell’essere. Più precisamente: l’essere è sempre e anche l’apparire dell’essere è sempre: la percezione che abbiamo del divenire è l’apparire dell’apparire dell’essere.
L’insussistenza del nesso di causalità è, sostanzialmente, l’ultimo passo della distruzione della ragione, ma S non ha interesse alla prassi e alle conseguenze della sua tesi.
Per le teorie volontaristiche, anche conoscendo il bene, puoi fare il male. Mentre per le teorie intellettualistiche la conoscenza del bene non consente di fare del male: se conosci il bene necessariamente indirizzi le tue azioni in quella direzione; per tale teoria il male discende dall’agire senza conoscere esattamente quale sia il bene. In questo senso bisogna precisare che la percezione del bene non è solo razionale ma discende dall’intero complesso di pulsioni, anche irrazionali, dell’individuo.
In realtà no perché ciò non implica che poi non si debbano valutare la azioni.
In realtà, questa impostazione abolisce la volontà.
La differenza nella concezione della necessità.
Per Spinoza tutto è necessario perché c’è una causa unica ex nihilo e tutto il resto discende necessariamente. Tutti noi siamo creta nelle mani del vasaio.
Per S. invece la necessità è l’esser sé dell’essente. L’essente non può che essere sé stesso e così sarà per sempre: in questo senso è necessario.


5 luglio 2009



Epitteto è un filosofo neo-stoico. non costruisce sistemi ma propone una riflessione e una proposta filosofica sulla prassi.

Il manuale inizia con questa definizione:

La realtà si divide in cose soggette al nostro potere e in cose non soggette al nostro potere

 

L’uomo si deve impegnare con tutte le sue forze sulle cose in suo potere.
Sei vuoi che il mondo vada secondo le tue voglie sei un illuso e vivrai una vita di sofferenza.
Se lego la mia felicità a ciò che non dipende da me sarò sempre infelice. Devo legare la mia conformazione morale (la mia felicità) alle cose che dipendono da me.
L’idea di felicità in Seneca è quella dell’uomo che non viene turbato dalle vicissitudini della vita.