Riflessioni a Nocera Umbra tra testo sacro e sacralità del testo

Recuperare la razionalità del sacro contro la follia dell’autoritarismo oggi imperante. Con questa osservazione del prof. Fabrizio Scrivano, docente di Letteratura Italiana all’Università di Perugia, si è concluso l’incontro di dottorato che il Dipartimento di Scienze Umane e Sociali dell’Università per Stranieri di Perugia ha tenuto, lo scorso 3 luglio, nella splendida cornice di Palazzo Camilli, storica dimora del centro storico di Nocera Umbra. La prof.ssa Giovanna Zaganelli, direttrice del corso e organizzatrice dell’incontro, ha sottolineato nel suo intervento la differenza tra testo sacro e sacralità: il primo caratterizzato dal continuo rimando delle interpretazioni, la seconda dimensione potente grazie alla quale afferrare la realtà. Concetto ribadito dal prof. Aldo Stella, anch’egli presente all’incontro e autore di un secondo recente volume critico sulla metafisica originaria di Emanuele Severino, per il quale il testo (textus) è tessitura ordita in vista di questo scopo e, in quanto tale, grande esperienza di sacralità. Del resto, come è stato detto, la forma psicologica del sacro è la forma del mistero: se da una parte può essere affrontata in senso epistemologico, dall’altra essa ha realtà completamente separata. L’incontro è stato presentato dal Sindaco Giovanni Bontempi, che ha voluto ringraziare l’Università per Stranieri per l’attenzione dimostrata nei confronti di Nocera Umbra, e dal parroco, don Ferdinando Cetorelli, il quale ha ribadito la centralità della Biblioteca Piervissani nel progetto di collaborazione con l’Università perugina.
I dottorandi che hanno presentato le proprie linee di ricerca sono stati Pierpaolo Trevisi (Testimonianze esposte lungo la via del sacro), Puma Valentina Scricciolo (Riscrivere la Bibbia. Clara Sereni e il racconto inedito Sara e Hagar) e Chiara Gaiardoni (Note su Leopardi e la figura di devozione). L’intervento più propriamente filosofico, in un dottorato che ospita prevalentemente ricerche di carattere filologico grazie all’indirizzo in Scienza del Libro e della Scrittura, è stato quello di Luca Montanari che ha presentato una relazione sull’ermeneutica del testo sacro in Emmanuel Lévinas che pubblichiamo qui di seguito.

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Come si devono interpretare le Sacre Scritture?

1. Meyer e Spinoza, un sodalizio intellettuale — 2. L’exercitatio paradoxa — 3. L’ermeneutica spinoziana — 4. Fonti 

1. Meyer e Spinoza, un sodalizio intellettuale

Se si uniscono le informazioni provenienti dalle testimonianze dei biografi viene fuori un ritratto di Lodewijk Meyer che lo descrive come grande amico di Spinoza, con il quale condivise il distacco da Cartesio e la realizzazione di un progetto che mirasse a spodestare le chiese della loro (presunta) autorità sulla salvezza delle anime; Meyer è inoltre descritto come l’autore della Philosophia Sacrae Scripturae Interpres (PSSI), condannata nel 1674 come opera blasfema assieme al Trattato Teologico-politico. Solitamente quindi il suo nome è legato a quello di Spinoza. Certamente il loro rapporto influenzò gli esiti delle proprie riflessioni, un’influenza che appare leggendo parallelamente il Tractatus theologico-politicus (TTP) e la PSSI, tuttavia lo stesso Meyer è stato iniziatore di un progetto rivoluzionario che ha innescato un grande dibattito sopratutto nell’ambiente teologico protestante e in quello del nascente cartesianesimo. All’inizio degli anni Sessanta Meyer iniziò a lavorare alla PSSI e nel 1663 furono pubblicati i Principia Philosophiae Cartesianae di Spinoza, di cui Meyer  realizzò la prefazione; questa fu la prima opera  edita di Spinoza, la sola comparsa con il suo nome e fu l’opera che instaurò un rapporto professionale fra i due autori. Tale collaborazione, considerando il momento storico in cui avvenne, assunse un ruolo fondamentale: se gli intellettuali e i membri delle gerarchie ecclesiastiche si trovavano a fare i conti con l’avvento del cartesianesimo, il sodalizio fra Meyer e Spinoza nacque per il comune presupposto di andare oltre il pensiero di Cartesio radicalizzando le critiche verso la concezione teologica e filosofica. Un progetto che Meyer portò a piena realizzazione con la pubblicazione (anonima) della Philosophia S. Scripturae Interpres; Exercitatio Paradoxa, In qua, veram Philosophiam infallibilem S. Literas interpretandi Norman esse, apodictice demonstratur, & discrepantes ab hac Sententiae expendutur, ac refelluntur (…), Eleutheropoli 1666. 

2. L’exercitatio paradoxa

L’opera di Meyer si presentò come una risposta, seppur parziale, alle problematiche sollevate dalla Riforma Protestante. Egli partì dal presupposto che la Scrittura fosse oscura ed ambigua in numerosi punti e questo a suo parere bastava a vanificare il principio (protestante) della Scriptura sui interpres, contro cui prese posizione nel corso di tutta l’opera.  I teologi che si appellavano a tale principio sostenevano al contrario che la Scrittura fosse chiara di per sé, che non necessitasse di alcuna interpretazione e che tramite i passi più chiari (sopratutto quelli inerenti la salvezza eterna) si potessero interpretare quelli più scuri. Proprio a causa della totale eterogeneità di opinioni, secondo Meyer il Cristianesimo fu dilaniato da dispute e lotte sanguinarie e di conseguenza fu impossibile pervenire ad una conoscenza vera e fondata sulla Verità, perché mancò un metodo adeguato di ricerca. Per risolvere questo stato di cose Meyer propose di servirsi del metodo acclamato dal «venerabile» Cartesio, per cui occorreva fare in teologia ciò che il filosofo francese fece in filosofia; bisognava revocare tutto in dubbio al fine di pervenire ad un fondamento ultimo che sarebbe risultato indubitabile, sul quale erigere il nuovo edificio della “Santa Teologia”.
Meyer era consapevole della portata paradossale del suo progetto, anche considerando il divieto cartesiano di estendere il nuovo metodo alle questioni teologiche; si trattava di capovolgere una prospettiva interna ad un tema caldo e dibattuto da secoli, quello dell’interpretatio Scripture. La sua ermeneutica si fondava su una importante distinzione tripartita che nel processo interpretativo prendeva in considerazione tre aspetti: il senso piano o ovvio, il sensus (ossia il vero senso inteso dall’autore) e la veritas. Il primo, che era il senso che appariva ad una prima lettura, non sempre corrispondeva al senso vero inteso dall’autore, poiché si trattava del senso immediato a cui pervenire mediante un approccio che non restituiva autenticità. Meyer poi distingueva il significato inteso come verus sensus dalla veritas, una distinzione che sembrava essere la stessa di Spinoza, secondo cui «ci occupiamo soltanto del significato dei discorsi e non della loro verità». Tuttavia il tratto caratteristico della riflessione di Meyer era che questa distinzione scompariva se si parlava della Scrittura, poiché in essa a tutte le verità corrispondevano dei sensi veri. Come riuscì egli a legarli insieme? Come riuscì a ricavare il senso vero della Bibbia ossia il senso inteso dal suo autore? Attribuendo la distinzione fra significato e verità solamente agli scritti profani, poiché la Scrittura era talmente perfetta che i suoi significati corrispondevano a verità e potevano essere riconosciuti da ciascun cristiano; ogni verità che si ricavava dalla lettura di un passo del testo sacro era anche il significato vero di quel passo, ossia quello realmente inteso dall’autore. Alla nuova “paradossale” ermeneutica meyerana si giunse poiché l’autore vide nella filosofia la sola norma infallibile con la quale cogliere questa coincidenza fra significati e verità della Scrittura. Tramite la filosofia e quindi la ragione era possibile giudicare se un senso della Scrittura fosse vero cioè se corrispondesse o meno all’intenzione dell’autore perché la retta ragione era capace di cogliere con perspicuità i significati rivelati da Dio nel testo sacro. Il metodo di Meyer aveva come obiettivo la ricerca della verità nella Scrittura e l’esegeta, seguendolo, sarebbe riuscito a raggiungerla perché secondo Meyer l’intelletto umano era fornito di verità religiose, per natura identiche a quelle matematiche, e queste si sarebbero accordate con il contenuto della Scrittura.
Meyer effettuò così un vero e proprio rovesciamento di prospettiva, poiché non partì dalla Scrittura di per sé poco chiara, ma dalle verità della ragione, cioè dalle idee cartesianamente intese come chiare e distinte, per poi tornare al testo sacro e mostrare in cosa esso si accordasse con questa verità. Su come nello specifico queste verità fossero contenute nella Scrittura e su come la ragione si adoperasse per coglierle Meyer rimase in silenzio. Se nell’intelletto agiva Dio, custode e origine di ogni verità filosofica, e Dio era lo stesso verace  autore del testo sacro, l’interprete non avrebbe potuto errare nella sua esegesi. Con la sua riflessione Meyer riuscì ad escludere qualsiasi concezione a favore del principio Scriptura sui interpres.

3. L’ermeneutica spinoziana

Se l’opera di Meyer si presentò come una risposta parziale alle problematiche che la Riforma portò con sè, il Trattato teologico-politico fu considerato come una parziale risposta all’opera di Meyer. Di fronte all’argomentazione meyerana che ruotava attorno all’unitarietà della verità e quindi alla coincidenza fra la verità filosofica e quella teologica Spinoza si presentò come innovativo. Pur condividendo con Meyer la visione della Scrittura come di un testo oscuro che doveva necessariamente essere interpretato, e che aveva bisogno inizialmente di un approccio filologico, Spinoza adottò la storia come suo criterio di interpretazione. La Scrittura non fu più considerata come un testo scientifico-filosofico dal quale dedurre verità matematiche, ma un testo al pari di quelli profani, il cui contenuto era da considerare come circoscritto ad un determinato momento storico. Dalla concezione ermeneutica spinoziana è stato possibile giungere a due conclusioni che hanno segnato la differenza dalla prospettiva di Meyer in relazione all’interpretazione della Scrittura. Per Spinoza era possibile dedurre dal testo sacro solo pochi insegnamenti di natura morale, il cui fondamento ruotava attorno all’obbedienza di Dio e passava per la pratica della giustizia, della carità e del rispetto reciproco fra gli uomini. La seconda conclusione è che tutto ciò che si rinveniva nella Scrittura e che lasciava intendere qualcosa a proposito della natura di Dio e dei suoi attributi non doveva essere preso in considerazione nel procedimento esegetico perché apparteneva all’ambito della speculazione. Meyer non sarebbe stato d’accordo, dal momento che per lui la Scrittura era talmente oscura che sarebbe stato impossibile trarne persino un piccolo nucleo di dottrine e insegnamenti morali. La separazione fra l’ambito della teologia e quello della filosofia non sussisteva. Ecco quindi che se per entrambi valeva il principio per cui la verità non contraddiceva la verità, le argomentazioni dissentivano. Per Meyer si trattava di attuare una coincidenza fra le verità razionali e quelle scritturali, mentre per Spinoza si partiva dal fatto che la Scrittura non contenesse verità e qualora se ne fosse voluto parlare occorreva intenderla come una verità parzialmente intesa dagli uomini e nella forma di un corpus di dottrine morali. Solo da questo punto di vista anche per Spinoza tali verità non contraddicevano la ragione. Certamente c’era anche una diversa concezione della ragione che in questo ambito per Spinoza non era vista come un insieme di idee e verità a priori, ma solamente come ciò che permetteva a chiunque di cogliere l’utilitas e la necessitas della Scrittura.

Meyer e Spinoza hanno quindi battuto strade differenti, raggiungendo esiti distinti pur condividendo lo stesso terreno culturale: secondo Spinoza  approcciandosi alla Scrittura seguendo il metodo da lui descritto si prospettava la possibilità per ciascun uomo di raggiungere la salvezza, ossia una beatitudine terrena che si sarebbe conquistata agendo giustamente e caritatevolmente. L’orizzonte salvifico è stato materia di studio per l’autore del Trattato teologico-politico che ha individuato due cammini di salvezza: uno adatto al saggio che lasciandosi guidare dalla ragione sarebbe riuscito a raggiungere la piena comprensione di Dio quale causa di tutte le cose. L’altro quello accessibile all’uomo comune a patto che si fosse lasciato guidare dagli insegnamenti scritturali fondati sull’obbedienza a Dio. Per Meyer invece la Scrittura non era utile dal momento che in essa erano presenti le stesse verità della ragione, per cui non sarebbe stato possibile estrarre nessuna nuova conoscenza dal testo sacro. La sua utilitas consisteva piuttosto nell’offrire al lettore un’occasione per riflettere sul suo contenuto. La Scrittura era così un testo attivo, capace cioè di risvegliare negli uomini una certa coscienza esegetica e conducendoli a mettere in relazione ciò che già conoscevano e ciò che avrebbero potuto leggere.

4. Fonti

Fonti primarie

  • Meyer L., Philosophia sacrae Scripturae interpres exercitatio paradoxa, Eleutheropoli 1666. [Meyer L., La Philosophie interprète de l’Écriture Sainte, par J. Lagrée et P.-F. Moreau, Intertextes éditeur, Paris 1988.
  • Spinoza B., Trattato teologico-politico, in Spinoza Opere, Mignini F., Proietti O., Arnoldo Mondadori, Verona 2009. [Spinoza B., Trattato teologico-politico, a cura di A. Dini, Bompiani, Milano 2010].

Fonti secondarie

  • Bordoli R., Etica  Arte e Scienza tra Descartes e Spinoza, Francoangeli, Milano 2001.
  • Bordoli R., Ragione e Scrittura tra Descartes e Spinoza, Francoangeli, Milano 1997.
  • Lagrée J./ Moreau P.-M., La lecture de la Bible dans le cercle de Spinoza, in J.R. Armogathe (éd.), Le Grand Siècle et la Bible, Paris 1989.
  • Meinsma K. O., Spinoza et son cercle, Vrin, Paris 1983.
  • Preus J. S., Spinoza e la Bibbia, Paideia Editrice, Brescia 2015.

[9 febbraio 2017]

 

 

Il TTP: un libro forgiato all’inferno o in paradiso? (Parte prima)

Il Trattato teologico politico (TTP) di Spinoza, pubblicato nel 1670, costituisce uno di quei rari testi filosofici che, a distanza di oltre tre secoli, continua ancora oggi a produrre una mole notevole di studi e letteratura critica. Il libro di Susan James, Spinoza on Philosophy, Religion and Politics, pubblicato nel 2012, costituisce un profondo e dettagliato studio che si aggiunge agli altri apparsi recentemente ((Vedi a questo proposito Steven Nadler, A book forged in Hell (tr. it. Un libro forgiato all’inferno, Einaudi, 2013)). Il suo scopo, come indicato esplicitamente nell’introduzione, è quello di ricostruire il contesto storico che ha dato forma al trattato confrontando i vari temi in esso contenuti con il dibattito e le lotte in corso in quel periodo. Come spiega l’autrice, questo approccio è particolarmente utile se si tiene conto del fatto che Spinoza ha redatto i suoi scritti per diversi destinatari e per differenti scopi in modo tale che sarebbe controproducente, e dannoso per la sua stessa comprensione, assumere il suo sistema come un tutto coerente forzando la sua interpretazione all’interno di un’unica lettura. Non manca tuttavia la discussione analitica di alcuni problemi teologico-filosofici: filo comune dell’analisi è il confronto con il calvinismo, la religione dominante nell’Olanda del seicento, anche a motivo del fatto che molte delle tesi di Spinoza riprendono, per distinguersene, i dogmi della principale e più rigida delle sette protestanti.

James Book

Se si considerano le tre ragioni che spinsero Spinoza a scrivere il TTP, indicate dallo stesso autore nella lettera a Oldenburg del 1665 ((Epistola XXX)), l’interpretazione della James prende in esame la seconda: evidenziare cioè come l’accusa di ateismo sia sempre stata respinta dal pensatore olandese il quale proprio sull’idea di Dio costruisce la sua filosofia. In questo senso il testo della James presenta uno Spinoza religioso, impegnato piuttosto a combattere la superstizione e l’ignoranza per mettere in luce il vero significato della religione. L’interpretazione della James si pone come alternativa e complemento a quella di altri studiosi ((Come ad esempio Jonathan Israel, Radical Enlightenment, Oxford University Press, 2002)) che tendono a leggere nelle pagine del TTP uno Spinoza laico, libertario, teso a distruggere i pregiudizi della religione al fine della libertà di filosofare.
Il libro è suddiviso in 12 capitoli organizzati in quattro parti: la Rivelazione, cioè i modi nei quali Dio si manifesta all’uomo; la demistificazione della Scrittura, ovvero perché la Bibbia non può essere intesa in senso letterale come Parola di Dio; l’adesione alle esigenze della vita religiosa, cioè i criteri della religione autentica; la politica della vera religione, dove viene preso in esame in che modo quest’ultima può trovare spazio nella società. Continue Reading

Il Logos nel De migratione Abrahami di Filone di Alessandria

1. Premessa. —  2. Il Logos nel De migratione Abrahami. — 2.1. Le tappe della migrazione. — 2.2. Logos dell’uomo e Logos di Dio. —  2.3. Il Logos umano e la migrazione da esso.— 2.4. Logos di Dio e Logos dell’uomo.— 2.5. La funzione del linguaggio.— 2.6. Logos e vita etica.— 2.7. Il Logos  e Dio.—3. Conclusioni.— Bibliografia.

1. — Premessa.
Questo lavoro intende esaminare il concetto di Logos ((Nel De migratione Abrahami, la parola logos ricorre 82 volte (al riguardo si è consultato P. BORGEN, K. FUGLSETH, R. SKARSTEN, The Philo Index: a complete Greek word Index to the Writings of Philo of Alexandria, Grand Rapids – Leiden, 2000, 208), assumendo i seguenti principali significati: a. parola di Dio (theou logos): la parola di Dio è oggetto di percezione della facoltà della vista che è nell’anima (rispetto alla parola dell’uomo percepita dall’udito), è pura parola non mescolata (diversamente dalla parola umana che è percussione dell’aria a mezzo degli organi della fonazione), è eletta come guida dal Sapiente, è oggetto di derisione di maghi e stregoni, è legge che ordina ciò che si deve e che non si deve fare, è compagna di viaggio di chi segue Dio (vd. ad es.: par. 47, 49, 52, 67, 83, 129, 130, 173, 174); b. Sacra scrittura (ieros logos): nel senso specifico di Torah (vd. ad es.: par. 17, 85); c. Logos, nel senso specifico di Logos di Dio: è la casa dell’intelletto di Dio, è nato prima delle realtà generate, è la barra del timone con cui il Nocchiero dell’Universo dirige tutte le cose, strumento per la creazione del cosmo in un ordine irreprensibile, è rappresentato dal Sommo Sacerdote, sulla cui testa è presente una lamina d’oro recante l’iscrizione “oggetto sacro a Dio” e Idea delle Idee in conformità della quale Dio ha dato forma al Cosmo (vd. ad es.: par. 4, 6, 102); d. legge di natura (logos fyseos): intesa come volontà di Dio, manifestata all’atto della Creazione, legge di Dio (vd. ad es.: par. 105); e. retta ragione (orthos logos): se l’intelletto la segue, l’uomo riesce a vivere in conformità alla legge di natura (vd. ad es.: par. 60, 128); f. parola legislatrice (logos thesmothetes): è la parola legislatrice di Mosè (quale autore della Scrittura), dà alimento e nutrimento a nobili azioni, pensieri e proponimenti (vd. ad es.: par. 24) g. linguaggio interiore nell’uomo (logos endiathetos): è il pensiero, la fonte – che si trova nella mente – da cui esce la corrente (parola), riceve il dono della bene-dizione (eulogia) di Dio (vd. ad es.: par. 70, 71, 73); h. linguaggio proferito, parola (logos prophorikos): è la parola, casa del “padre” (intelletto), cioè è il luogo in cui l’intelletto si manifesta, in cui l’intelletto abita, vive, in cui l’intelletto si mostra mettendo in bell’ordine i pensieri, è la corrente che sgorga dalla fonte dell’intelletto, ha l’intelletto come suggeritore, va a vuoto se il pensiero non è chiaro, è interprete dell’intelletto, diversamente dalla parola di Dio ha natura sensibile, è percussione dell’aria attraverso gli organi della lingua e della bocca, va dalla bocca del parlante all’orecchio di chi ascolta, è inadeguato per parlare di Dio, può essere oggetto di un’arte (oratoria), occorre migrare dal linguaggio,  giacché le parole sono copie delle realtà più vere, e non bisogna correre il rischio che – sedotti dalla copia – si perda di vista l’archetipo, per colui che migra il linguaggio (al pari del pensiero) diventa oggetto di benedizione, è simboleggiato da Aronne che – abile a parlare – sostiene Mosè (impacciato nella parola) nella comunicazione – vd. ad es.: par. 2, 3, 4, 7, 12, 40, 48, 78, 79, 80, 81, 84, 85, 151, 171.))  nel De migratione Abrahami ((Ai fini della lettura ed analisi della problematica del Logos nel De migratione Abrahami di Filone di Alessandria, ci si è avvalsi del testo contenuto in: FILONE DI ALESSANDRIA, Tutti i trattati del commentario allegorico alla Bibbia, R. RADICE (a cura di), Bompiani, Milano 2005.)), opera dedicato da Filone di Alessandria alla interpretazione di Genesi 12, 1 – 4 e 12, 6. Prima di passare all’esame dell’argomento, si ritiene opportuno premettere una breve nota di contestualizzazione. Continue Reading

Quale Dio per il pensiero?

Fare teologia, parlare di Dio nella tradizione giudaico-cristiana ha significato storicamente fare riferimento alla Parola di Dio. Non si può essere teologi, non si può discorrere su Dio se non si crede  che vi sia una Parola di Dio. Non si tratta di un problema di poco conto se si tiene  presente il fatto che la stessa Scolastica distingueva una teologia naturale e una teologia-teologia esprimibile, quest’ultima, soltanto da chi crede alla Parola di Dio.

E tuttavia, contro questa concezione, si deve dire che non solo si può ma si deve parlare di Dio anche se non si ritiene che vi sia una Parola di Dio. In questo modo il campo del discorso su Dio è aperto ad ogni uomo e ciò anche a motivo del fatto che qualsiasi pensiero, che voglia dirsi tale, consiste nella sua stessa impossibilità di arrestarsi prima di sbattere contro quest’ultimo argine costituito da quello che, per definizione, è da sempre il problema ultimo. Con questa premessa, quasi mettendo le mani avanti su un tema delicatissimo ed esibendo allo stesso tempo la piena legittimità del discorso filosofico, Massimo Cacciari ha aperto la lezione magistrale tenutasi domenica 21 giugno di fronte ad oltre 450 persone al Monastero della comunità di Bose, in provincia di Biella.

Nella nostra tradizione occidentale, il discorso degli albori è quello di Democrito il quale parla della teologia come di qualcosa proveniente dai Magi, cioè dalla sapienza mesopotamica, che discuteva degli astri intesi come divinità. Il teologico in ultima analisi si confondeva con l’astrologico.

Il grande passo e allo stesso tempo la grande rottura viene fatta da Platone il quale, grazie al discorso metafisico, afferma che il divino non può essere identico al suo manifestarsi: una cosa è il sole, altra cosa è la divinità. La teologia comincia così ad interrogarsi su ciò che è ulteriore ma a questo punto le strade cominciano a divergere.

Una via è quella del platonismo secondo cui l’ordine che appare e tutto il manifestarsi degli essenti proviene da un Uno sovrasensibile. Il divino è ciò che produce la tensione degli essenti all’unità e viene chiamato di volta in volta in modo diverso: Eros (Amore) oppure Agaton (Bene) i quali connettono tutto ciò che esiste in piena armonia.  Con Platone la filosofia classica ritiene che il Divino sia l’Uno che si manifesta nella pluralità degli enti. L’Uno platonico è così indeterminato e il problema che si pone è il seguente: in che modo si può e si deve spiegare l’effusività dell’Uno? In che modo cioè si spiega il passaggio dall’Uno ai molti?

L’altra via è quella dell’aristotelismo il quale fa notare che,  siccome esiste un rapporto concreto tra l’Uno e gli enti, l’Uno, a differenza di quanto sosteneva Platone e il platonismo, è determinato. Se infatti l’Uno entra in rapporto con il determinato non può non avere la sua stessa natura. Esso tuttavia, in qualità di super-ente, rimane separato dall’ente e sorge il problema di spiegare in che modo si costituisce il rapporto tra i due. La riflessione filosofica, di fronte a questo problema, finisce per concentrarsi primariamente sull’ente, diventa cioè discorso scientifico. Ecco allora la fisica, attraverso la quale viene analizzato e spiegato l’ente; ecco la logica grazie alla quale si possono descrivere le connessioni che esistono tra gli enti. L’Uno, attraverso il discorso teologico che Aristotele non a caso pone al vertice della metafisica, diventa ciò che spiega il movimento dell’ente, esso è motore immobile, Ente sommo. Si realizza così il passaggio dall’Uno platonico avente carattere indeterminato all’Ente aristotelico avente i caratteri del determinato che spiega a sua volta tutta la natura e la nascita dell’ontoteologia.

Si capisce che in questo modello, attorno al quale si struttura l’idea di Dio che domina in Occidente grazie soprattutto alla Scolastica, soltanto l’Uno dispone ed è custode dell’essere mentre tutti gli altri enti nascono e muoiono. Viene alla luce la radice inaudita del nichilismo: se l’esistenza compete soltanto al Super-ente, gli enti che divengono propriamente non sono, non esistono. L’interdetto ex nihilo nihil, che era valso per tutta la filosofia greca, viene violato proprio attraverso l’ammissione del divenire.

Le due vie che hanno pensato Dio in occidente sono così ben distinte che si potrebbe dire che una è quella vincente (quella aristotelica) e l’altra perdente (quella platonica). E tuttavia quest’ultima è come una spina nel fianco che risorge sempre. Ciò avviene attraverso la grande dottrina di Sant’Agostino e in tutti quei discorsi che teorizzano il Deus absconditus, il dio nascosto. Perché, si chiede Cacciari, Platone rimane dappertutto? Perché il problema che si pone è il seguente: davvero il discorso teologico può realizzarsi e giungere a termine con la manifestazione di Dio? Posso cioè veramente comprendere dio nella sua Rivelazione? Questo è il problema! Si comincia a scorgere cioè che il discorso sugli enti e le caratteristiche metasifiche attribuite al dio inteso come sommo Ente non esauriscono le esigenze del discorso teologico. Ecco allora il nascere della Mistica, che in questo quadro deve intendersi come grande discorso proveniente dal platonismo.
Oggi questa istanza la vediamo all’opera, secondo Cacciari, nell’Islam secondo cui l’Uno non è determinabile, non può essere predicato. La passione dell’Uno che riscontriamo oggi nell’Islam è però follia e delirio. E questo sia perché esso rinuncia alla relazione sia perché lo stesso Gesù è considerato manifestazione di puro irrealismo e irrazionalità. Da questo punto di vista è come se l’Islam dicesse a Cristo: “tu non conosci la vera natura dell’uomo” quasi riprendendo l’accusa del grande inquisitore di Dostoevskij.

In questo quadro, prosegue Cacciari, si pone il problema del Dio trinitario cristiano. Qui infatti l’istanza del rivelarsi del divino costituisce qualcosa di paradossale e fa nascere due domande: Il Logos che si rivela può essere inteso come rivelazione ultima e totale di Dio? Ciò che si rivela in tutta la sua drammaticità può essere inteso come Dio? La teologia cristiana risponde negativamente in quanto a rivelarsi è solo una persona della Trinità. Proprio per questo motivo e grazie a questa sua natura, il cristianesimo rimane la religione più perfetta, quella che riunisce dentro di sé l’immanente e il trascendente e che soprattutto esprime la dimensione divina più perfetta, quella della relazionalità.

La teologia (e con essa la filosofia) continuerà però a dirci, soprattutto attraverso Lutero, che ragionare, riflettere e speculare oltre quel Logos che si è rivelato nella carne è esercizio di vanità: si annuncia così la grande stagione dell’idealismo tedesco. Hegel in fondo non vuole altro che comunicare l’idea che (come per Lutero) solo il Logos conta, solo la Parola fatta carne deve essere presa in considerazione. Dio diventa il concetto. Ma questa enfasi sul Logos si rivela di fatto come un impoverimento della struttura trinitaria e l’idealismo tedesco finisce per rendere immanente ciò che è di dimensione più elevata. In questa pennellata a grandi tinte della storia del pensiero filosofico sull’idea di Dio, Spinoza appare come un precursore dell’idealismo. Sebbene infatti il suo sistema rappresenti una perfezione assoluta, un modello logico insuperabile ed esprima l’amore stesso di Dio, esso tuttavia rimane sostanza astratta che soltanto l’idealismo porterà a compimento introducendo il divenire storico. Compimento però che, secondo il filosofo veneziano, mostrerà a sua volta tutta la sua insufficienza: il Deus sive Natura si riflette nella mente umana, nel cervello, il quale, lasciato a se stesso, finisce per compiere i disastri. Quindi anche questo modello è insufficiente per un adeguato pensiero di Dio.

Il discorso finale ha riguardato l’analisi del sentimento religioso a partire da un’altra stagione fondamentale del pensiero filosofico, quella della fenomenologia. Il suo tratto caratteristico è quello di operare una riduzione dell’esperienza religiosa vista e analizzata secondo il suo pathos originario. Due però, secondo Cacciari, sono i limiti di questo approccio. Il primo è dovuto al fatto che sembra impossibile parlare di esperienza religiosa, e quindi ridursi al puro dato fenomenologico, senza una precomprensione della stessa, senza cioè il cosiddetto circolo ermeneutico. L’esperienza religiosa è sempre predeterminata da un punto di vista interpretativo. Il secondo limite è costituito  dalle conseguenze della sua stessa impostazione: secondo la fenomenologia infatti è possibile risalire ad un denominatore comune che accomunerebbe tutte le espressioni di religiosità. In realtà questo non è possibile in quanto, secondo Cacciari, la dimensione religiosa non è mai univoca ed è sempre originaria. Per questo motivo la religione è rappresentata dalla dimensione simbolica e non dall’allegoria: soltanto il simbolo esprime autenticamente il fatto religioso, cioè il suo provenire da un’esperienza unica e sempre nuova che accade nell’essere umano.

 

Spinoza a Uomini e Profeti

Uomini e profeti è una trasmissione radiofonica in onda il sabato e la domenica mattina su Radio tre. Ideata e condotta da Gabriella Caramore (foto accanto), da oltre venti anni è tra i rari appuntamenti pubblici che affrontano argomenti di carattere teologico e religioso con una solida preparazione culturale (soprattutto biblica) unita a uno stile sobrio e raffinato. Notevoli sono le iniziative curate dalla trasmissione: una delle ultime in ordine di tempo è stata la lettura della Bibbia, dal primo all’ultimo libro, portata avanti insieme a studiosi e intellettuali dal 2010 al 2013. Numerose, anche per via del curricolo della conduttrice, le incursioni nel campo della filosofia. Una di queste ha interessato anche la figura di Spinoza con una puntata trasmessa l’8 dicembre del 2013 (ancora oggi scaricabile nella sezione podcast del sito) dal titolo Un uomo che genera Dio, secondo una citazione tratta da una poesia di Borges dedicata al filosofo ebreo.

Introdotto dalle parole di Giorgio Colli – che definiva il sistema di Spinoza un’unità a confronto della molteplicità frantumata del mondo moderno e la sua Etica (l’opera principale di Spinoza oggetto del nostro prossimo ritiro filosofico) come avente «la fermezza di un tempio in un paesaggio disabitato capace, se contemplato, di far conoscere il Divino» –  il dialogo in studio ha visto la presenza di Davide Assael, giovane ricercatore di origine ebraica.

Spinoza viene presentato correttamente nella sua dimensione biografica, storica e filosofica. Particolare attenzione, come è naturale, viene posta alle regole esegetiche contenute nel suo Trattato Teologico Politico del 1670 relative all’interpretazione delle Scritture. Con molta onestà viene giustamente ricordato che il filosofo e “ateo” Spinoza è stato il fondatore del metodo storico-critico che poi, dopo essersi diffuso in modo generalizzato nell’ambito della teologia due secoli più tardi, è oggi diventato imprescindibile anche per le chiese cristiane e nelle facoltà di teologia ai fini di una corretta comprensione della Bibbia. Viene poi ricordata la critica antropomorfica, ovvero l’antifinalismo di Spinoza, che vieta di porre l’essere umano al centro della natura (cosa ancora controversa per il sapere religioso cristiano). La discussione si sviluppa poi evidenziando i limiti del pensiero spinoziano. Su questi vorremmo soffermare la nostra attenzione, sia per indicare luoghi o testi in cui approfondire i singoli temi trattati sia per esprimere alcuni rilievi di carattere critico.

La conduttrice e il suo ospite sostengono che il metodo esegetico storico-critico non può essere assolutizzato: anche la lettura della Bibbia fatta in senso simbolico deve essere difesa perché recante una dimensione di significato da cui non si può prescindere. Non si dovrebbe cioè ridurre la Scrittura all’interpretazione fondata sul metodo storico-critico in quanto, avendo anch’esso i suoi limiti, deve essere utilizzato insieme ad altri metodi, così come mostrato da Sergio Quinzio (per tali critiche rimandiamo alla lettura dell’epistolario con Ceronetti). Su questo punto, per evidenti motivi, rispettiamo la diversità consistente in un approccio di fede necessariamente diverso rispetto a quello meramente razionalistico aggiungendo però che se, come dicono i conduttori, la lettura della Scrittura deve e può essere fatta in modo allegorico, diventa allora quanto mai urgente capire i luoghi dove ciò avviene insieme all’individuazione dei criteri per cui ciò avviene (ad esempio: come si pone oggi la scienza teologica in merito alla dimensione allegorica della risurrezione di Cristo?).

Il dialogo si estende poi sull’imbarazzo ancora attuale di Israele nei confronti di Spinoza. Esso nasce dalla valutazione secondo la quale le categorie utilizzate dal filosofo sono essenzialmente scientifico-filosofiche e non ebraiche. Da una parte si prende atto come nei suoi confronti l’atteggiamento umano sia cambiato, grazie anche al nuovo paradigma sull’identità ebraica che al tempo del filosofo significava compiere i precetti (mizwot) mentre oggi non è più così. Dall’altra però rimane l’imbarazzo perché, nonostante “l’errore strategico” della sua espulsione, rimane immutata la condanna dottrinale dovuta al fatto che quello di Spinoza non è più considerato un pensiero ebraico. Ricordiamo, a questo proposito, che dal novembre del 2012 fino al giugno del 2013 la comunità ebraico-portoghese di Amsterdam ha svolto un processo postumo per l’abrogazione del bando di espulsione di Spinoza emesso nel 1656 conclusosi però con la decisione del mantenimento della scomunica (per la discussione su questa vicenda vedi l’articolo di Steven Nadler nella rubrica The opinionator del New York Times).

Nella trasmissione si sottolinea altresì come il pensiero etico del filosofo olandese abbia portato ad un’eccessiva fiducia nella ragione, una sorta di ottimismo antropologico che, insieme al principio della libertà di coscienza, è oggi in corso di rivisitazione attraverso una vera e propria “apologia del dualismo” grazie alla quale emergerebbero aspetti trascurati dal monismo, prima di tutto l’idea di limite che permette la relazione tra gli individui. Tuttavia, aggiungiamo noi, non è affatto vero che un approccio monista (l’idea secondo cui esista un solo principio metafisico) sia di ostacolo alla relazione tra gli individui; anzi è semmai tutto l’opposto, come ha mostrato ad esempio Schopenhauer per il quale proprio l’appartenenza del genere umano (e animale) alla medesima sostanza costituisce il fondamento dell’etica.

Viene sottolineato infine l’atteggiamento “antidemocratico” e poco accettabile di Spinoza in relazione alla tesi secondo cui la Bibbia è stata scritta per educare ai misteri divini il popolo ignorante. A questo proposito si sottolinea come egli mantenga una posizione fortemente elitaria: nonostante si riconosca che il percorso educativo richieda un grande sforzo, è comunque «meno giusto riconoscere che alcuni possono educarsi e altri no» chiosa la conduttrice. Qui tuttavia sarebbe stata necessaria una precisazione. Il problema cioè non è quello di aver separato il volgo dai sapienti (distinzione che c’è sempre stata e che sempre rimarrà nel genere umano). Il punto è che per Spinoza la Bibbia non è stata scritta per ragioni di conoscenza divina (per la quale ci si deve rivolgere piuttosto alla filosofia) ma semplicemente per suscitare l’obbedienza, la devozione e il sentimento religioso verso Dio. Anche in questo senso dunque il pensiero di Spinoza non solo non è antidemocratico ma, potremmo dire, democraticissimo nella sua vera e propria essenza, specialmente se si tiene conto di quello che è stato definito il paradosso spinoziano, quello per cui «Se qualcuno, credendo cose vere, diverrà arrogante, costui avrà una fede empia; ma se sarà obbediente, pur credendo cose false, la sua fede sarà pia» (TTP, cap. XIII). Il senso di quella tesi, secondo la quale la Bibbia si rivolge ai semplici e a chi non ha tempo di indagare la natura di Dio (motivo per cui, tra le altre cose, in essa non vi è da ricercare alcun incomprensibile mistero divino), è che obbedienza e conoscenza, teologia e filosofia, fede e ragione sono e devono rimanere radicalmente separate tra di loro, tanto che una loro commistione non solo non porta a nessuna conoscenza ma è per entrambe nociva.

Infine il determinismo nelle azioni umane, spettro che non finisce mai di spaventare il mondo teologico (nonostante il fatto che proprio un pensatore come Lutero ne sia stato uno dei principali sostenitori). Secondo i protagonisti della trasmissione, non credere al libero arbitrio significa arrendersi al fatalismo che limita le potenzialità creative dell’individuo. Secondo la nostra opinione invece, oggi confermata anche dallo sviluppo delle neuroscienze, pur riconoscendo che tale fede è il presupposto irrinunciabile di molte costruzioni individuali, sociali e teologiche, la credenza nel libero arbitrio, da un punto di vista filosofico, è accettabile al pari di quella di chi si dichiari disposto a credere nei miracoli.

Affrontando un filosofo ancora scomodo per la teologia e per la religione in genere, Uomini e profeti si è ancora una volta dimostrata trasmissione non solo intelligente ma anche dotata di coraggio, provando la maggiore vitalità del mondo teologico odierno rispetto a quello filosofico, rimasto ancora troppo piatto e convenzionale soprattutto nel nostro Paese.