In uno dei testi più noti della letteratura occidentale, Sofocle racconta la vicenda di Antigone che, per seppellire il cadavere di suo fratello Polinice caduto nella guerra voluta da Creonte, contravviene alla legge dello Stato che vietava gli onori funebri a chi avesse infranto le sue leggi. Per tal motivo, l’episodio è diventato paradigmatico del rapporto spesso conflittuale tra l’adesione alla legge divina e l’obbedienza alla legge civile con la protagonista che dopo essere stata condannata, finirà per togliersi la vita. Figura centrale della tragedia che porta il suo nome, Antigone ha ispirato filosofi come Schelling, Kierkegaard, Heidegger e Derrida ma l’interpretazione più nota è stata quella di Hegel che ha utilizzato il personaggio come strumento di un lungo esperimento mentale per mettere alla prova non solo la relazione tra legge divina e legge umana ma anche quella tra il singolo e la comunità finanche quella tra maschio e femmina. Lo scenario controfattuale, che giustifica l’inserimento dell’allegoria nella galleria degli esperimenti mentali, è costituito dalla lunga serie di conseguenze che si producono a seguito della scelta di Antigone. Come sempre, quando si tratta del filosofo dell’idealismo assoluto, le vie attraverso le quali si realizza il risultato finale non sono affatto scontate anche perché Hegel finisce per utilizzare l’eroina greca per dare una certa immagine della donna che è stata poi oggetto di radicale contestazione da parte di alcune correnti della filosofia contemporanea.
Il Dialogo tra Creonte e Antigone
Dopo che l’opera si era aperta con il dialogo tra Antigone e la sorella Ismene che l’aveva scoraggiata dal disubbidire alla norma dello Stato che vietava la sepoltura dei traditori, Antigone viene condotta nel palazzo del re Creonte.
Creonte: Quanto a te, dimmi semplicemente, e senza giri di frase: conoscevi l’editto, che vietava proprio ciò che hai fatto?
Antigone: Sì, lo conoscevo. E come potevo ignorarlo? Era pubblico.
Creonte: Eppure hai osato trasgredire questa norma?
Antigone: Sì, perché questo editto non Zeus proclamò per me, né Dike, che abita con gli dèi sotterranei. No, essi non hanno sancito per gli uomini queste leggi; né avrei attribuito ai tuoi proclami tanta forza che un mortale potesse violare le leggi non scritte, incrollabili degli dèi, che non da oggi né da ieri, ma da sempre sono in vita, né alcuno sa quando vennero alla luce. Io non potevo, per paura di uomo arrogante, attirarmi il castigo degli dèi. Sapevo bene – cosa credi? – che la morte mi attende, anche senza i tuoi editti. Ma se devo morire prima del tempo, io lo dichiaro un guadagno: chi, come me, vive immerso in tanti dolori, non ricava forse un guadagno a morire? Affrontare questa fine è quindi per me un dolore da nulla; dolore avrei sofferto invece, se avessi lasciato insepolto il corpo di un figlio di mia madre; ma di questa mia sorte dolore non ho. E se ti sembrava che mi comporto come una pazza, forse è pazzo chi di pazzia mi accusa.
Il dramma della coscienza etica nel conflitto tra particolare e universale
L’interpretazione della vicenda deve seguire da vicino il filo del ragionamento che Hegel conduce nell’intera sezione A del cap.VI della Fenomenologia dello Spirito. Il filosofo riunisce nella figura di Antigone numerose contraddizioni che non si lasciano riassumere nella semplice opposizione tra legge divina e legge umana (rappresentate rispettivamente da Antigone e da Creonte) ma che si radicano in maniera profonda nell’atto in cui si esprime la coscienza etica. Il problema centrale rimane quello dell’azione guidata dal dovere assoluto e che ora si trova rappresentato in una vicenda che esprime il conflitto tra i valori della famiglia (aventi radici nella legge divina) e in quelli della città che albergano nella volontà umana. In questo contesto Antigone è espressione dei valori della famiglia, ovvero quella dimensione della comunità in cui lo spirito trova la sua realtà nella maniera più elementare ed immediata, e che si realizzano compiutamente con il caro estinto nel quale la singolarità viene innalzata all’universale. Ecco allora che nell’attività familiare del dare sepoltura al morto si realizza un fare in cui appare come il singolo e la comunità non sono due entità astrattamente isolate, una contrapposta all’altra, bensì due aspetti della medesima realtà. Se la famiglia, nella quale si realizza il singolo, è il luogo dove lo spirito trova la sua realizzazione, essa è al tempo stesso la sede dove la comunità riceve la sua forza e che riverbera i suoi effetti fino al governo.
Questa seconda dinamica provoca un’altra conseguenza tragica e terribile: quella per cui il governo, al fine di evitare la frammentazione nella quale la comunità sarebbe trascinata a causa dell’individualità dei suoi membri, ricorre allo strumento della guerra per evitare il proprio disgregamento derivante dalle tendenze autonomistiche dell’individuo. Diversamente da quanto intendono le ideologie che vedono nella guerra lo strumento dell’imperialismo capitalistico o dell’ordine liberale, per Hegel è lo Stato ad innescare la guerra la quale ha il compito di ricordare all’individuo che è la paura della morte e non l’amore per la libertà la passione alla quale egli deve sottomettersi.
I tre rapporti familiari tra uomo e donna
All’interno di questo quadro già ricco vanno inseriti e letti i tre rapporti interni a quello spirito particolare che è la famiglia: quello tra padre e figlio, quello tra moglie e marito e quello tra fratello e sorella. In modo curioso per il filosofo che ha fatto del desiderio il motore dell’agire umano e della storia, proprio il rapporto tra fratello e sorella è giudicato come migliore in quanto purificato dalla presenza ingombrante della cupiditas. Se negli altri casi, soprattutto in quello tra moglie e marito, il desiderio è ciò che permette la superiorità dell’uomo sulla donna e di tenerla soggiogata al suo ruolo particolare di ancella del focolare domestico, nel rapporto tra fratello e sorella le rispettive posizioni sono di uguaglianza non essendo predominante il momento della sessualità, strumento del dominio dell’uno sull’altro. Per Antigone la perdita del fratello costituisce il suo dovere supremo perché, morto il marito o il figlio, una donna può sempre averne un altro mentre nel caso del fratello ciò è impossibile e la sorella diviene custode della legge divina realizzando l’essenza etica universale. La legge divina «ha la sua individualizzazione nella femmina, cioè lo spirito inconscio della singolarità che ha in lei la propria esistenza. In virtù del termine medio della femmina questo spirito emerge dalla sua irrealtà alla realtà, dal non-sapere e non essere saputo al regno cosciente». L’emergere della legge divina è però inficiata nel suo sviluppo dalla morale che appare ancora una volta l’elemento che interviene a sconvolgere il quadro.
La comicità dello scontro e l’essenza della colpa
La morale è infatti attraversata da due rapporti conflittuali: da una parte quello tra famiglia e comunità (o governo); dall’altra quello tra femmina e maschio. Ogni rapporto è caratterizzato da sfumature e gradi diversi in cui l’atto morale determina sempre uno scontro che Hegel definisce comico (dove traspare ancora una volta il suo sarcasmo contro la morale kantiana), in cui la comicità è costituita dal fatto che ogni contendente rivendica il proprio agire come assoluto. Questo è il vero campo da gioco dello scontro tra Antigone e Creonte i quali rappresentano un conflitto tra risolutezze etiche senza alcun fondamento ontologico in cui «ciascuna delle due coscienze vede il diritto solo dalla parte sua e il torto dall’altra. E così la coscienza che appartiene alla legge divina scorge nell’altro lato una violenza umana accidentale, mentre la coscienza soggetta alla legge umana vede nell’altro lato l’ostinazione e la disobbedienza».
Mediante l’atto questa separatezza diventa colpa la cui essenza risiede nell’agire in quanto chi agisce è sempre colpevole: verità evidente (se solo si ponga attenzione alla vita di tutti i giorni) che viene espressa da Hegel con l’affermazione secondo cui è innocente soltanto «la non attività, l’essere di una pietra, nemmeno quella di un bambino». L’atto è intrinsecamente criminale perché esso è negazione della coscienza dell’altro (agire infatti è sempre negare), sicché l’autocoscienza non cessa mai di essere perseguitata da quella «potenza tenebrosa» che è la colpa. Emerge fin d’ora il conflitto tra coscienza giudicante e coscienza agente che Hegel descriverà più avanti nel medesimo capitolo in tutte le sue sfaccettature.
Nello scontro tra Antigone e Creonte ha la meglio quest’ultimo ma in questa vittoria sul particolare, l’universale è entrato in conflitto con la legge divina, il che significa (nella logica di Hegel) che il mondo manifesto ha radice e forza nel mondo invisibile. Quella dello Stato è una vittoria di Pirro in quanto nella lotta esso ha riconosciuto che la sua forza risiede in quel mondo sotterraneo che Creonte voleva negare negando gli onori funebri ad Antigone. Il popolo ha dunque certezza di sé soltanto nelle «acque dell’oblio», conclusione che costituisce un giudizio di pietra per coloro che amano coltivare le virtù del volgo. Commettendo questa ingiustizia, lo Stato firma la sua rovina in cui gli strumenti della sua condanna saranno altri Stati e altre comunità.
La legge, l’ironia e le macchinazioni della femmina
Nella lettura di Hegel questa conclusione, che rappresenta l’esito della tragedia sofoclea, viene soltanto accennata e al suo posto viene enfatizzato il ruolo della donna. In particolare, egli sottolinea la dimensione “criminale” di Antigone, di colei cioè che esalta il particolare al posto dell’universale. Hegel sembra però qui avere in mente una di quelle figure bibliche al femminile come Gezabele, moglie del re Acab e protagonista dietro le quinte dell’episodio della vigna di Nabot: grazie agli intrighi della first lady, che si adopera per accusare e mettere a morte l’onesto cittadino per estorcergli il pezzo di terreno negato legittimamente al sovrano, il fine pubblico del governo si trasforma in azione privata: in questo caso si ha davvero l’elemento femminile, definito come «l’eterna ironia della comunità», all’opera per convertire la proprietà universale dello Stato in un possesso o in un vanto di famiglia. Nell’Antigone di Sofocle tutti questi motivi non compaiono: non solo l’eroina non è artefice di alcuna macchinazione ma soprattutto (e questo è in realtà ancora più sorprendente) non ammette nessuna colpa (l’unico a dichiararsi colpevole sarà Creonte) rivendicando in modo pervicace la propria innocenza (per la figlia di Edipo, quasi una sorta di anticipazione di quella dell’agnello cristiano). Per Hegel, per il quale l’Antigone (come viene detto nell’Estetica) è l’opera d’arte più eccellente e più soddisfacente di tutti i capolavori del mondo antico e moderno, l’interpretazione del femminile sembra gravata da un pregiudizio eccessivo. Sarà forse per questo che la figura di Antigone viene parzialmente riabilitata nella Filosofia del diritto come espressione più autentica della pietas dichiarata come la «legge della femmina» ovvero la legge del sentimento soggettivo e dell’interiorità imperfetta, legge eterna dichiara Hegel «di cui nessuno sa dire quando apparve e che è presentata nell’opposizione contro la legge manifesta, la legge dello Stato». Si tratta dell’opposizione etica suprema indicata rispettivamente dall’elemento femminile e da quello maschile: rimane quindi che la guerra perfetta è la guerra tra sessi perché opposizione radicale dei rispettivi principi. Non è un caso che l’Antigone di Hegel è stata oggetto di critica da parte del movimento femminista e da tutti coloro che rivendicano la cosiddetta parità di genere.
Riferimenti bibliografici
Hegel, Fenomenologia dello Spirito, Bompiani (testi a fronte), Milano, 2001
Hegel, Lineamenti di Filosofia del diritto, Bompiani (testi a fronte), Milano, 2006
Sofocle, Tragedie, vol.I, Eschilo – Sofocle, Rizzoli, BUR, Milano, 2009
Pietro Montani (a cura di), Antigone e la filosofia, Donzelli, Roma, 2017
Judith Butler, Antigone’s Claim: kinship between Life and Death, Columbia Univ., 2002 (tr. it. La rivendicazione di Antigone, Bollati Boringhieri, Torino, 2003)
1 Re 21, 1-29 (Episodio della vigna di Nabot)