Uno degli aspetti centrali di quella che Heidegger chiama la risonanza, cioè la consapevolezza dell’abbandono del pensiero dall’Essere (nel quale consiste l’autentico nichilismo) è la cosiddetta macchinazione. Macchinazione significa prima di tutto che l’ente è interpretato come rappresentabile e, in quanto tale, calcolabile, opinabile, ottenibile mediante la produzione. La macchinazione respinge tutti quei tentativi che possono portare il pensiero verso un’autentica meditazione dell’essere e lo fa, in primo luogo, grazie all’idea della verità come correttezza del rappresentare (adaequatio rei intellectus est). Essa, la macchinazione, installandosi nel cuore della metafisica, è ciò che provoca un generale e nuovo tipo di incantamento.
Non solo. La macchinazione ha la capacità di nascondersi dietro concetti quali oggettività e obiettività intesi come norme della realtà. Sua capacità è la naturale attitudine a nascondersi dietro ciò che le si dovrebbe opporre, a prendere cioè le vesti di chi dovrebbe negarla: la macchinazione «si pone al posto di ciò che è interiore e alla fine nega la differenza tra interiore ed esteriore». Le stesse conoscenze sono mal comprese tanto che si giunge perfino alla scolarizzazione, procedura per l’allevamento di massa, vero e proprio sovvertimento della scholè che richiedeva piuttosto l’uso delle proprie disposizioni intellettuali a prescindere da qualsiasi fine o bisogno pratico. Heidegger chiama nei Quaderni Neri macchinazione quella che altrove, soprattutto nelle conferenze pubbliche e nei saggi, chiama tecnica.
L’esperienza vissuta grande inganno della macchinazione
Il principale nascondimento della macchinazione è la cosiddetta esperienza vissuta. Grazie ad essa infatti la macchinazione trova il suo occultamento, ovvero «la pubblica accessibilità che rende disponibile per chiunque ciò che è misterioso, vale a dire che eccita, emoziona, incanta, rendendo necessario ciò che ha il carattere della macchinazione». Così, quando si sente parlare di “esperienza vissuta”, si deve essere consapevoli che ci si mette al servizio della tecnica, ovvero della totale assenza di scopi. «Proprio la denudazione, la pubblicizzazione e generalizzazione di qualsiasi stato d’animo sono il presupposto della macchinazione sotto l’aspetto dell’ingenua spontaneità. A ciò corrisponde la crescente falsità di ogni atteggiamento. La conseguenza della denudazione degli stati d’animo, che è allo stesso tempo mascheramento del vuoto crescente, si manifesta nell’incapacità di esperire». Uno dei caratteri con i quali si presenta l’esperienza vissuta è l’esautorazione della parola, sicché il sovvertimento è generale. L’esperienza vissuta, l’agente della macchinazione, aggredisce e svuota dall’interno proprio quei concetti della metafisica che avrebbero dovuto fondare un’altra storia.
La coscienza non serve a risolvere il problema della tecnica
Esperienza vissuta significa anche non sapere più che cosa sia condizione e che cosa sia condizionato, cioè l’essenza del fondamento. Si vive in un mondo storicizzato, o per meglio dire storiografico, dove vige soltanto la lettura causale, posta in modo completamente miope. Oggi uno dei segnali della macchinazione è il dibattito sull’intelligenza artificiale. Si fa un gran parlare sul pericolo che le macchine diventino coscienti ma non si sa nulla sul cosa significa essere coscienti. A cosa serve indicare i rischi delle macchine coscienti quando non si sa più cosa sia condizione e cosa condizionato? Nel mondo in cui tutto è possibile, dove ciò che suscita orrore è la parola limite, perché tutto deve essere illimitato e incondizionato, a cosa serve la coscienza (degli uomini o delle macchine ormai non importa)?
Siamo nel pieno di un’aporia di cui lo stesso Heidegger è cosciente, come giustamente si osserva nell’articolo I sentieri e la palude. Coscienza per Heidegger significa nascondere ed occultare la questione dell’essere. Ma allora, ci domandiamo, deve darsi una retrocessione all’incosciente, inteso come vita ed istinto, addirittura come riduzione al corpo e alla vita? Niente di tutto ciò, perché proporre il dualismo coscienza-incoscienza non è altro che riprodurre il dualismo soggetto-oggetto. Coscienza per Heidegger è piuttosto volontà di potenza necessaria per un consolidarsi della vita nel senso della stabilità, sicché essa appartiene ancora alla metafisica, intesa come dimenticanza del senso dell’essere.
La politica come macchinazione: inutilità di nazionalismi e guerre
Chi pone in atto la macchinazione dell’ente, la sua riduzione a procedura, è la politica. Essa non ha più nulla a che vedere con la polis, dice Heidegger, tantomeno con la moralità e con il diventare un popolo. Anzi, le differenze tra popoli, stati e culture non sono altro che facciata: il ritorno dei nazionalismi, da questo punto di vita, si configura (se non fosse per le tragedie che produce) come un patetico manifestarsi di anime belle.
La macchinazione non solo permette ma richiede la creazione di punti di vista: in questo consiste la vera e propria palude delle opinioni che impedisce ogni riferimento all’essere. Ormai quello che conta e che le esperienze vissute si incalzino e si superino a vicenda e che assumano l’aspetto di vissuti spirituali, «perché lo spirito stesso è senz’altro solo un provvedimento che sta al servizio della potenza della macchinazione e prende ordini da questa». Una delle conseguenze di questa prospettiva è che non servono né grandi uomini né guerre per destare un’autentica meditazione sull’Essere: Heidegger ripudia il nazismo nei suoi fondamenti originari. Da una parte «le guide (Führer) si distinguono per il fatto di essere capaci, di essere i più puri funzionari – vale a dire i più dipendenti esecutori dell’allestimento della pressione di massa». Dall’altra, la guerra non serve ad alcunché se non (oltre ad aumentare le sofferenze) a mostrarsi come esempio della macchinazione incondizionata che produce la massima distanza dall’essere e dalla meditazione. La guerra non solo non è continuazione della politica con altri mezzi, come pensava erroneamente Clausewitz, ma è la stessa trasformazione della politica, «la manifestazione del fatto che la politica stessa è stata solo il compiersi, non più padrone di se stessa, di non dominate decisioni metafisiche». In questo processo sono risultate essenziali le due guerre mondiali del novecento: esse infatti hanno portato la macchinazione al suo pieno e incondizionato dispiegamento.
Oggi si sono riaccese guerre in cui i nemici lottano per la loro autoaffermazione, palesando obiettivi che in sé non sono obiettivi ma il mantenimento di situazioni sospese che costituiscono l’incubazione delle guerre successive. Non si vede cioè, sostiene Heidegger, «che la causa della guerra si nasconde proprio nel presentare obiettivi durante un’epoca di completa mancanza di obiettivi», dove ciascuno dei nemici fondamentalmente non sa quale obiettivo abbia la sua guerra e, in tale non sapere, ciascuno sa che tale guerra non ammette più né un vincitore né un vinto. Il massimo che la tecnica ammette infatti sono “interessi” da lei interamente dipendenti e completamente sganciati da qualsiasi logica legata alla morale o alla realpolitik: la guerra è il compimento della macchinazione e della modernità.
Riferimenti bibliografici
- Heidegger, Martin. 2007. Contributi alla filosofia (Dall’evento). Milano: Adelphi
- Heidegger, Martin. 2015. Quaderni Neri, Riflessioni II-VI, 1931/1938. Milano: Bompiani
- Heidegger, Martin. 2016. Quaderni Neri, Riflessioni VII-XI 1938/1939. Milano: Bompiani
- Heidegger, Martin. 2016. Quaderni Neri, Riflessioni XII-XV 1939/1941. Milano: Bompiani
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