Parlare di “stile” in Merleau-Ponty significa rifarsi ad Husserl; per quanto su questo concetto non sia esplicito il riferimento al filosofo tedesco, i due luoghi dell’opera husserliana a cui faremo riferimento non potevano non essere noti al filosofo francese.
Nel §9 della Crisi leggiamo:
Anche se noi possiamo pensare questo mondo fantasticamente mutato e anche se possiamo pensare di rappresentarci il futuro decorso del mondo, in ciò che ci è ignoto, ‘così come potrebbe essere’, nelle sue possibilità: necessariamente noi ce lo rappresentiamo nello stile in cui noi abbiamo il mondo e in cui l’abbiamo avuto finora. Possiamo giungere ad un’espressa coscienza di questo stile nella riflessione e attraverso una libera variazione di questa possibilità. […]. Appunto così ci accorgiamo che, in generale, le cose e gli eventi non si manifestano e non si sviluppano arbitrariamente, che sono bensì legati ‘a priori’ da questo stile, dalla forma invariabile del mondo intuitivo.(Husserl 1972:60)
Nel §61 di Ideen II leggiamo:
In un certo senso, si può parlare dell’individualità come di uno stile complessivo e di un habitus del soggetto che attraversa, nella forma di una concordante unità, tutti i suoi modi di comportamento, tutte le attività e le passività, […]; uno stile unitario nel modo in cui certe cose ‘gli vengono in mente’, nel modo in cui gli si presentano certe analogie, in cui opera la sua fantasia […] (Husserl 1965:665)
Corpo e stile
Nel primo passo citato lo stile viene presentato dal lato dell’oggetto-mondo e rende conto dei limiti qualitativi attraverso i quali io faccio esperienza del mondo al punto che, anche ipotizzando mondi fantastici, noi li configuriamo sempre a partire dalle categorie di questo mondo. Nel secondo passo lo stile è visto dal lato del soggetto come una sorta di essenza costitutiva di ogni singolo, in modo da determinare “l’habitus” delle sue condotte pratiche, intellettive. Quando Merleau-Ponty parla dello stile come di una “deformazione coerente” ha in mente sicuramente Husserl perché per Merleau-Ponty rappresenta quasi uno schema interiore che, come l’habitus di Husserl, è qualcosa che il soggetto non possiede in termini espliciti, ma lo esplica attraverso il proprio comportamento come struttura di per se significante:
questo ‘schema interiore’ che si realizza sempre più imperiosamente nei quadri, al punto che la famosa sedia diviene per noi ‘un brutale ideogramma del nome stesso di Van Gogh’, per Van Gogh non è abbozzato nelle sue prime opere, non è nemmeno leggibile in ciò che si chiama la sua vita interiore, in quanto allora Van Gogh non avrebbe bisogno dei quadri per ricongiungersi e cesserebbe di dipingere. Egli è questa vita, in quanto esce dalla sua inerenza e dal suo silenzio […] (Merleau-Ponty 1984:75)
È quindi lo stile a dare forma all’esperienza ed esso appare oggettivo per noi che lo osserviamo, ma non per il soggetto agente che, vivendolo come una peculiare riproposizione del suo commercio con il mondo, ha con esso un rapporto di così radicale continuità da “non poter provare in tutto il suo rilievo il fenomeno dell’espressione” (Merleau-Ponty 1984:75). Ne risulta che, esattamente come in Husserl, anche per Merleau-Ponty lo stile concerne tanto il soggetto — animale, umano, vegetale — quanto il mondo, proprio perché è l’essere stesso che coincide con l’espressione e, a qualsiasi livello, “è lo stile che rende possibile ogni significazione” (Merleau-Ponty 1984:76; Silverman 1990:131). Ma se lo stile è “l’essere”, di quale “essere” stiamo parlando? Dell’essere “grezzo” o di quello “percepito”? (Merleau-Ponty 2003:224; Ales Bello 2008).
Merleau-Ponty fa riferimento ad alcune pagine di Du côté de chez Swann, in cui Swann, terminato l’amore tra lui e Odette, esprime il senso stesso di quell’amore facendo riferimento alla sonata del musicista Vinteuil. In queste pagine Proust, secondo il filosofo francese, svela delle ‘essenze alogiche’, perché fa riferimento ad un’ “idea” che “non è posseduta in modo tale che si possa dire ciò che è” (Merleau-Ponty 2003:184). In altre parole, Swann prova ad attribuire l’impressione di delicatezza, suscitata dall’ascolto della piccola frase musicale, all’effetto prodotto dalla disposizione delle note, ma si rende subito conto che, così facendo, non ragiona sulla frase stessa, quanto su dei valori positivi che la sua intelligenza sostituisce all’ “entità misteriosa” che gli si è rivelata attraverso quella sonata. La “piccola frase” musicale diventa, per Swann, l’emblema di quell’“altro mondo” nel quale l’aveva trasportato l’amore per Odette. E proprio nel tentativo di aderire “al paesaggio di un’esperienza” — cioè l’amore che l’aveva ormai abbandonato -, l’emozione è mancata. Tuttavia, ciò non costituisce affatto un limite da rimuovere, perché le “tenebre” da cui sono avvolte “le idee sensibili” è la sola modalità di manifestazione che esse hanno. È lo stile, dunque, a configurare un uomo e un mondo e, dunque, lo stile è tale in quanto è all’opera e si comunica agli altri “perché trova in me un sistema di risonatori che gli è proprio” (Merleau-Ponty 1984:77).
Ma proprio per questo dobbiamo dire che lo stile non appartiene all’essere “grezzo” quanto al mondo in quanto “percepito”: “si può dipingere guardando il mondo poiché lo stile che definirà il pittore per gli altri, al pittore sembra trovarsi nelle apparenze stesse (mentre, beninteso, esse sono sue apparenze)” (Merleau-Ponty 1984:80). All’essere “grezzo” apparterrebbe una generalità inattingibile, che può essere colta solo in modo particolare e concreto, cioè attraverso un soggetto che, come quello “incarnato” della Phénoménologie ((“il sensibile […] non è altro che un certo modo d’essere al mondo che ci viene proposto da un punto dello spazio e che il nostro corpo, se ne è capace, riprende e assume: la sensazione è alla lettera una comunione”; Merleau-Ponty (1965:289); per il rapporto del corpo con i colori cfr. Autieri M. (2011:32-35).)), coglie la “vibrazione” del mondo. Così, infatti, si esprime il filosofo francese nel Visibile e l’invisibile:
quando mi chiedo che cos’è il qualcosa o il mondo o la cosa materiale, io non sono ancora il puro spettatore che, in virtù dell’atto di ideazione, sto per divenire: sono un campo di esperienze nel quale si delineano solamente la famiglia delle cose materiali, e altre famiglie, e il mondo come loro stile comune; la famiglia delle cose dette e il mondo della parola come loro stile comune, e infine lo stile astratto e scarno del qualcosa in generale (Merleau-Ponty 1993:130)
In Merleau-Ponty l’avvento dell’essere non è linguistico e in questo senso la percezione, esattamente come avviene in Husserl, è già una stilizzazione perché le variazioni del mondo vengono da me rapportate a qualche norma familiare; nella percezione io già trovo una radice di significato, quindi un’attività, così come Husserl la considera un giudizio in senso lato. In questo modo tra percezione ed estensione non c’è rapporto di subordinazione — come avveniva in Cartesio che era costretto ad ascrivere al pensiero tutto ciò che eccede l’estensione, ad esempio trattando la percezione della somiglianza come un segno decifrato —. Diverso il caso se metto l’accento, come fa Merleau-Ponty, sull’espressione, perché mi soffermo su come la singolarità si singolarizzi su un fondo di infinità. Qui, per espressione, non intendiamo l’elemento soggettivo contrapposto a quello oggettivo del mondo, quanto il punto di vista cui il soggetto accede nella sua singolarità ontologica: punto di vista che il soggetto va ad occupare.
Interessante, a tal proposito, ricordare l’episodio che Merleau-Ponty riporta in Signes traendolo da Malraux. L’aneddoto in questione è quello relativo a Renoir che viene avvicinato da un albergatore di Cassis mentre dipinge davanti al mare donne che facevano il bagno in un altro luogo. La ricostruzione dell’episodio consente a Malraux di dire che l’azzurro del mare altro non era che il ruscello delle Lavandaie. Come interpretare questa “deformazione coerente” si domanda Merleau-Ponty? Il fatto è che si chiede al mare unicamente “una tipica” della sostanza liquida, in modo da svincolare il quadro da ogni tentazione di somiglianza per permettergli di esercitare la funzione di espressione. E infatti Merleau-Ponty fornisce una definizione della “comprensione” piuttosto eloquente:
comprendere non è costituire nell’immanenza intellettuale, comprendere è cogliere per coesistenza, lateralmente, in stile e con ciò raggiungere di colpo le lontananze di questo stile e di questo apparato concettuale (Merleau-Ponty 1993:204).
Corpo e parola
Noi perciò abbiamo accesso alle cose non direttamente, ma attraverso lo scambio che il corpo ha con il mondo. È esattamente questo “il lavoro” che il filosofo francese attribuisce al linguaggio, cioè la capacità di orientarci verso “un’iniziazione” che improvvisamente ci rende circondati di senso. Dietro la circolazione di significati già istituiti, di pensieri già espressi, ovvero a monte della parola che agisce nella vita quotidiana, dobbiamo ritrovare il “passo decisivo dell’espressione” già compiuto. In altre parole, Merleau-Ponty ci sta dicendo che le convenzioni linguistiche “sono un modo tardivo di relazione tra gli uomini, presuppongono una comunicazione preliminare e si deve ricollocare il linguaggio in questa corrente comunicativa” (Merleau-Ponty 1965:258).
Ma quali sono i caratteri di questa comunicazione preliminare? Essa può essere considerata un gesto che produce un “riconoscimento cieco che precede la definizione e l’elaborazione intellettuale del senso” (Merleau-Ponty 1965:258). In questo modo salta anche ogni distinzione tra introspezione e osservazione esterna: non ha alcun fondamento dire che della paura mi appaiono solo i segni corporei, ma che per comprenderla devo ricorrere all’introspezione per ritrovarla in me stesso. È solo quando rinuncio alla scissione tra espressione e significato che posso valutare la collera, l’amore, come stili di condotta che hanno una funzione e un senso veicolati dal loro stesso manifestarsi.
Ma assegnare un significato immanente alle parole, di contro a una concezione convenzionalistica del rapporto tra segno verbale e significato, non significa trascurare la pluralità dei linguaggi? Potremmo andare incontro a questa obiezione, dice Merleau-Ponty, se ci limitassimo al significato terminale delle parole. Ma le cose cambiano se ci si riferisce al “senso emozionale”. Vale a dire che se rifletto sulla parola nell’atto in cui la proferisco, ritrovo il nesso tra la gesticolazione verbale e il suo senso intenzionale; la parola, cioè, mi dà la presenza motoria della mia corporeità:
quando la so, la parola ‘nevischio’ non è un oggetto che riconosco grazie ad una sintesi di identificazione, ma un certo uso del mio apparato di fonazione, una certa modulazione del mio corpo come essere al mondo; la sua generalità non è quella dell’idea, ma quella di uno stile di condotta che il mio corpo ‘comprende’ in quanto è un potere di fabbricare comportamenti e in particolare fonemi (Merleau-Ponty 1965:516).
Che cosa significa? Che la parola, proprio come il corpo, non ha il carattere della semplice presenza, ma è caratterizzata dal rimando, quest’ultimo inteso meno come capacità ostensiva della parola che come apertura al senso: insomma, una “modulazione del reale” che rende inscindibili il gesto espressivo e l’ambiente che lo circonda. In secondo luogo, ci dice che debbo poter trovare le parole esattamente come non ho difficoltà a trovare una parte del mio corpo; le parole, cioè, devono far parte della mia costituzione, nel senso che “l’atto di intenzione non è fuori della parola, ma con la parola” (Merleau-Ponty 1965:51). Il corpo, quindi, si troverebbe a mediare una familiarità primordiale, qualcosa in cui il soggetto si costituisce riflettendosi. Che cosa significa tutto ciò per l’impostazione di una teoria della parola? Il mondo oggettivo, correlato tanto alla semantica quanto alla sintattica come banco di prova del concetto, è presupposto come originario in una considerazione puramente intellettuale del fenomeno linguistico.
Ma è così? Non è forse vero che le conseguenze pratiche di un concetto non sono affatto cronologicamente successive alla funzione semantica del concetto stesso?
In altre parole, ciò che appare fondante rispetto a quest’ultima funzione è il punto di vista pragmatico, nel senso che il mondo oggettivo sorge con il concetto: prima non c’è “un mondo”. Anche una semplice congiunzione pronunciata dopo una parola ha l’effetto pratico di determinare un’attesa, cioè ha il potere di aprire spazi di significazione che orientano il corso del linguaggio: ovvero, il linguaggio è innanzitutto un gesto, ciò che Sini chiama “grafema”:
il grafema è il gesto nella sua sorgiva e originaria valenza, in quanto esso incarna la funzione oggettivante primaria. È […] quell’indicare originario che sta prima dell’indice teso e puntato e della cosa indicata, e che anzi li costituisce come tali”(Sini C., 1991:185).
Pensare, come ha ampiamente mostrato Merleau-Ponty nella Fenomenologia della percezione, è trovarsi incarnati in relazioni che costituiscono i nostri concreti orizzonti di mondo.
Bibliografia
― Merleau-Ponty:
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Molto interessante e stimolante la riflessione sulla possibile differente relazione tra il soggetto e l’oggetto, la parola, il corpo e il mondo. L’articolo indica, interrogando Merleau Ponty, i sentieri di una esperienza in cui il linguaggio rimanda ad uno strato espressivo che non si esaurisce in una funzione meramente ostensiva delle parole, ma ne mostra il loro stesso essere incarnate nel corpo e nel mondo, il partecipare all’apertura di nuove direzioni di senso. Non siamo spettatori di fronte ad un mondo oggettivo, o veicolo di significati predeterminati, ma sempre in un’intrascendibile correlazione soggetto-oggetto in cui l’uno determina ed è determinato dall’altro.