Desiderio Erasmo da Rotterdam, noto anche come principe degli umanisti e precettore d’Europa, è stato un filosofo sui generis. Pur non avendo scritto nessun trattato specifico di filosofia, la vastità dell’erudizione classica, l’immensa mole degli studi filologici, l’appello alla libertà dell’uomo, la volontà di rinnovare il cristianesimo, i suoi scritti etico, morali e politici, ne fanno insieme una sorta di Plutarco della modernità e un precursore di Montaigne. Uomo di cultura straordinaria, viaggiatore instancabile, Erasmo è uno dei primi grandi intellettuali europei e non a caso il progetto culturale dei giovani più importante del continente si ispira al suo nome.
Nonostante questa sua statura, l’influsso di Erasmo sulla cultura europea non ebbe quel rilievo assoluto che doveva e poteva avere. Non ci riferiamo a quei tanti filosofi e pensatori che, come nel caso di Bruno, consideravano Erasmo un maestro da cui trarre immagini e figure concettuali. Il riferimento va piuttosto alle due grandi potenze culturali e politiche del periodo in cui visse, veri e propri vasi di ferro in mezzo ai quali il riformatore olandese si ritrovò ben presto schiacciato, la chiesa cattolica da una parte, il luteranesimo dall’altra: amico di entrambi, si ritrovò di entrambi nemico a causa della tolleranza e della ispirazione pacifista del suo pensiero. La chiesa lo accusò di eresia censurando e vietando i suoi scritti; Lutero lo rimproverò di debolezza e di parole vuote.
Le ragioni del difetto di una sua adeguata influenza nella cultura europea sono legate però anche al carattere di Erasmo. Se il teologo volto a riformare il cristianesimo poteva propendere per l’azione e la riforma, l’umanista nostalgico della quiete e della libertà degli studi lo faceva oscillare verso la direzione opposta. Di fatto, nei suoi scritti e nelle sue opere, questo suo animo oscillante emerge in modo tragico. La politica, che mette a nudo ogni contraddizione, è l’ambito in cui questa ambivalenza emerge in modo crudele, tanto da essere corretto il giudizio di Huizinga che nella sua biografia definisce Erasmo un intellettuale da tavolino che, «nonostante la sua innata moderazione, non era affatto una mente politica. Era troppo fuori dalla realtà pratica ed aveva concetti troppo ingenui sulla perfettibilità umana per comprendere le difficoltà e le necessità del governo dello Stato». Erasmo insomma fu un riformatore religioso che non seppe avere la capacità di portare fino in fondo il suo progetto tanto (come scrive Zweig nel saggio a lui dedicato) «da rimanere solo alla fine della sua vita, per non aver voluto prendere parte né a favore né contro la Riforma».
Questo giudizio deve essere riferito anche ad alcuni suoi scritti dedicati alla politica. Da una parte uno dei trattati più celebri, L’educazione del principe cristiano, è annoverabile negli letteratura degli specula principis, la tradizione classica degli scritti di edificazione morale rivolti al sovrano; dall’altra però, nell’adagio Lo scarabeo va in cerca dell’aquila, il sovrano appare nelle vesti del tiranno feroce e spietato, incurante di qualsiasi umanità e pietà religiosa, e per questo da temere in ogni situazione. Esopo, Plinio ed Aristotele sono le fonti più importanti di questo racconto nel quale l’aquila viene descritta come nemica di tutti gli animali e per questo condannata a vivere nelle alture. Come i tiranni.
Lo scontro mortale tra l’aquila e lo scarabeo
Il saggio si apre con la descrizione dell’odio implacabile tra l’aquila e lo scarabeo, animali che rappresentano rispettivamente la classe dirigente e la plebe. Situazione anomala, spiega Erasmo, perché di solito l’odio interviene tra chi è unito da qualche vincolo e non tra chi è separato da una distanza in apparenza incolmabile. Per questo motivo Erasmo si addentra nella conoscenza dell’indole dei due animali.
Con una metafora fin troppo esplicita del tiranno il quale ama ripetere «così io voglio, così comando, la mia volontà è la legge» (Giovenale), l’aquila non è capace di alcuna disciplina ed è inutile nei suoi confronti qualsiasi sforzo educativo. Questo pessimismo nei confronti del governante induce Erasmo ad affermare che, nonostante la distinzione tra re e tiranno, non esistono sovrani che corrispondono al primo modello; di conseguenza il tiranno è come l’aquila e da questa similitudine vengono tratte numerose quanto terribili analogie con il comportamento del volatile. A questo segue il lungo elenco dei conflitti tra l’aquila e gli altri animali in cui si sottolinea quello con il cibindolo (un falco notturno) figura di colui che scruta in profondità e come tale, dissentendo cioè con le opinioni del volgo, maggiormente inviso al tiranno.
Lo scarabeo, dal canto suo, con la peculiare caratteristica di nascere dallo sterco nel quale ama vivere, è annoverato nella razza più umile degli insetti. Esso è metafora del sileno che designa chi è ruvido e volgare all’apparenza, ma saggio e quasi divino nel suo animo. Per questo motivo la figura classica del sileno è Socrate «faccia da contadino, un aspetto bovino, il naso schiacciato e pieno di moccoli (…) eppure dispiegando questo ridicolo Sileno avresti scoperto qualcosa di divino più che d’umano: un’anima straordinaria, sublime e veramente filosofica» (I Sileni di Alcibiade). Erasmo però scrive nell’epoca dei Sileni invertiti, espressione poi ripresa da Bruno, uomini che vogliono apparire sapienti, la barba lunga, titoli altisonanti, in realtà quanto di più lontano possa esserci dalla sapienza. Tra le qualità dello scarabeo spicca poi anche quella di essere simbolo del guerriero.
Nonostante questa distanza tra i due animali, a seguito di un grave episodio accaduto sul monte Etna, lo scarabeo finì per condurre una guerra senza quartiere con l’aquila. Incurante della preghiera dello scarabeo di risparmiare la volpe a cui aveva dato rifugio nella sua tana, l’aquila uccise e dilaniò la sua preda. Questo gesto comportò una profonda ferita all’orgoglio dello scarabeo il quale decise di vendicarsi. Dopo alcuni tentativi, lo scarabeo riuscì a salire fino al nido dell’aquila (inaccessibile anche all’uomo, il più pericoloso degli animali) da dove fece cadere tutte le uova della sua nidiata. Questo gesto fu ripetuto più volte dallo scarabeo, in un desiderio di vendetta chiaramente sproporzionato e illegittimo.
Dopo aver scoperto le cause della distruzione delle sue uova, grazie anche all’intercessione di Zeus, l’aquila divenne il nemico più acerrimo dello scarabeo, e da quel momento furono fissate le ragioni del loro odio reciproco.
Un finale ambiguo
La chiusura di Erasmo sorprende e rimette tutto in discussione. Nel racconto di Esopo la morale è quella di non disprezzare nessuno perché tutti, prima o poi, tenteranno di farsi giustizia. Nel racconto di Erasmo, se lo scarabeo era inizialmente figura del sileno, ora, nella conclusione morale, diventa metafora di quegli «omiciattoli di condizione certamente meschina, eppure così subdoli, omiciattoli non meno oscuri, schifosi e bassi dello scarabeo, eppure così tenaci e astuti che, mentre non possono giovare a nessuno, spesso riescono a nuocere anche alle persone più elevate». Sicché, conclude Erasmo, «è molto meglio dover affrontare uomini molto potenti che provocare questi scarabei, che non puoi nemmeno vincere senza un certo imbarazzo, né riuscirai ad allontanarli da te: insomma con loro è impossibile scontrarsi senza uscirne contaminato». La descrizione machiavellica del principe svanisce improvvisamente in quella delle basse qualità morali della plebe. Più volte Erasmo aveva attaccato i Principi denunciando la loro rapacità e insieme la loro follia. In questo caso, il senso della distanza, la sobrietà dell’umanista e il disprezzo della plebe aveva la meglio sulla condanna del tiranno (e sull’analisi politica).
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Riferimenti bibliografici
– Erasmo da Rotterdam. 2017. Adagi, n.2601. Milano: Bompiani.
– Erasmo da Rotterdam. 2011. Scritti teologici e politici. Milano: Bompiani.
– Huizinga, Johan. 1975. Erasmo. Torino: Reprints Einaudi.
– Zweig, Stefan. 2002. Erasmo da Rotterdam. Milano: Bompiani.
Aquile scarabei caproni: vizi e virtù degli uomini e degli animali. In ogni caso conviene imparare da Erasmo l’uso delle metafore per affermare la libertà di pensiero nella società degli ipocriti che vuole controllare l’odio con la censura delle parole.