Alcune note su acosmia ed ecumene a partire da Augustin Berque

Per Heidegger una parte essenziale dell’uomo risiede nel nesso sussistente tra abitare, costruire e pensare, tanto che questi tre termini sono giustapposti a formare il titolo di un saggio del filosofo tedesco in cui egli cerca di invitarci a riflettere sul rapporto che l’uomo intrattiene con queste attività, sollecitato da una contingenza storica peculiare: la crisi degli alloggi nella Germania post-bellica.

La domanda sul costruire: tecnica, urbanizzazione e ritorno alle origini
Senza occuparci della ricostruzione dell’intero saggio che non pertiene allo scopo di questa analisi, potremmo subito anticipare la silloge di questo rapporto con le stesse parole di Heidegger: «1. Costruire è propriamente abitare. 2. L’abitare è il modo in cui i mortali sono sulla terra. 3. Il costruire come abitare si dispiega nel “costruire” che coltiva, e coltiva ciò che cresce; e nel costruire che edifica costruzioni» (Heidegger 1991, 98). Per il filosofo tedesco abitare significa prendersi cura della propria mortalità come elemento strutturale della quadratura, nell’attesa del divino, ma vivendo la nostra esperienza mondana sempre inseriti tra terra e cielo, in un’armonia relazionale ineludibile. Il costruire, come forma peculiare dell’abitare, ci dice Heidegger, è prendere parte attiva in questa reciprocità, come nel caso di un ponte che «riunisce presso di sé, nel suo modo, terra e cielo, i divini e mortali» (Heidegger 1991, 102) inserendosi nel cosmo, entrando in accordo con il ritmo dell’essere. L’impronta del discorso heideggeriano (già attraverso l’ascolto del linguaggio e del suo senso più originario/originale) è volta a recuperare quella che con Panikkar potremmo considerare la visione cosmoteandrica (Panikkar 2010) della realtà, che per millenni ha caratterizzato l’uomo primordiale e che, con la secolarizzazione della modernità tecno-scientifica, ha iniziato a dissolversi nello squilibrio dell’oggettivazione meccanicistica. Continue Reading

Figure del cieco: l’artista e il filosofo in una lettura derridiana

Attraverso Derrida possiamo abbozzare un tentativo di decostruire la semantica del visibile insita allo sforzo filosofico come sia profondamente strutturata nell’impensato della cecità come contraltare gnoseologico-estetico per ripensare la condizione del filosofare, simile a quella dell’artista che lavora sulla soglia tra visibile e invisibile.

Through Derrida we can sketch an attempt to deconstruct the semantics of the visible inherent in the philosophical effort as it is deeply structured in the unthought of blindness as a gnoseological-aesthetic counterpart to rethink the condition of philosophizing, like that of the artist who works on the threshold between visible and Invisible.  Continue Reading

Per un paradigma non dualistico della corporeità: l’esperienza del pensiero cinese

Nuova Asia 1600ca

In questo breve scritto cercherò di illustrare come, al di là di alcune correnti filosofiche che si sono avvicendate nel Novecento, esista un modo alternativo e ad esse complementare per sollevare obiezioni a un dualismo tra anima e corpo. Nella prima parte cercherò di avvicinarmi al lavoro di François Jullien mostrando come secondo la sua interpretazione il pensiero cinese abbia percorso una via diversa da quella del dualismo per considerare il rapporto anima-corpo, preferendo una polarità dinamica immanente. Cercherò di insistere sulla possibilità di utilizzare queste risorse concettuali per mobilitare – nella seconda parte – una concezione del corpo diversa da quella tradizionale come sottoposto al canone monopolizzante della bellezza o del meccanicismo, sperando di proporre due tematiche e due possibili linee di riflessione che integrino teoresi e prassi. Continue Reading